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Come fanno a Bosa? Parte 1

Creato il 29 agosto 2013 da Subarralliccu @subarralliccu

Quando piove lasciano piovere“. È il fatalismo, secondo un noto modo di dire, la cifra caratteristica dei bosani, il modo di essere di chi abita la città che in queste settimane è al centro di un dibattito molto acceso e appassionante tra modi diversi di concepire lo sviluppo dell’importante cittadina planargese. Abbiamo cercato di capire meglio, convinti che i temi della discussione bosana avessero un valore e una rilevanza che trascendono la dimensione locale. Con una serie di post proveremo a spiegare che cosa abbiamo capito di Bosa, del dibattito che la sta scuotendo e ne sta mettendo in luce le diverse anime.

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Una città bellissima
Bosa brilla tra le sette città regie dell’antico regno di Sardegna. Mentre la percorri, lei si racconta per immagini, sospese tra l’aristocratico e l’artigiano, tra il locale e l’universale. Bosa non si accontenta di un make-up medievale e lascia che il suo volto mostri i segni colorati della sua storia millenaria, che dal tardo antico corre fin verso la piena età moderna.
La si incontra così, Bosa; sonnecchiante ai piedi del castello Malaspina, relitto della signoria navale ligure che in Planargia ha radici vecchie forse quanto i giudicati sardi. Dormiveglia, Bosa, appesa ad un tempo scandito dal canto dei grilli e da tramonti mozzafiato, e domina la vallata nella quale il Temo si butta in mare. Passeggiare nella parte alta della città regala l’illusione di poter stringere con gli occhi un simile straordinario disegno, composto magico nato dalla mescola irripetibile di mare, cielo, fiume e montagna.

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La città degli incontri
Lungo la linea di confine che fonde il marino al montano e al fluviale, ha preso corpo un ambiente sociale frammentato in tante lingue e culture (il sardo, l’italiano, il castigliano, il ligure, il napoletano), articolato in saperi marinari e montanari, pastorali e ittici, agricoli e fluviali. Un caleidoscopio di diversità temperate dal Temo, unico fiume navigabile della Sardegna, cerniera di mondi, di prospettive, di destinazioni.
Al largo i liguri hanno pescato coralli e donne bosane per secoli. Se ne sono andati solo nel Settecento, quando i nuovi signori della Sardegna, i Savoia, gli hanno preferito i concorrenti napoletani. Negli stessi anni arrivavano i greci, fondatori di Montresta, paese aggrappato alle spalle montanare di Bosa, dove per mille anni centinaia di ettari di ghianda e erbe hanno nutrito l’anima pastorale della città e degli altri paesi che la spiano dai monti: Magomadas, Suni, Pozzomaggiore, Villanova Monteleone. A mediare tra pescatori e pastori c’è sempre stato un ceto urbano mercantile ricco, colto, orgoglioso, figlio anch’esso della mescola tra cognomi sardi, liguri, spagnoli, greci.

Queste sono solo alcune delle ragioni per le quali Bosa è esperienza insediativa particolarissima, la cui eco risuona con ritmo ipnotico mentre si passeggia nella parte alta della città, chiamata Sa Costa, che scivola addosso alle mura del castello per poi gettarsi a capofitto sul Temo.


Migrazioni Interne

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A partire dagli anni ’80 del Novecento, gli abitanti storici della Bosa alta (Sa Costa) iniziano a vendere. Forse perché le case erano ormai troppo umide o forse perché la lottizzazione che allargava la città a valle, verso Ovest, prometteva, con stili abitativi finalmente moderni, la possibilità di lasciarsi alle spalle un passato decadente, povero, post-feudale. E sì che gli antichi signori cittadini, già da tempo, avevano preso stabile e prestigiosa dimora nella città bassa, specie lungo il corso Vittorio Emanuele II, che – analogamente all’omonima via cagliaritana – fin nel nome manifestava l’asse di valori (liberali, borghesi e risorgimentali) che ne decidevano l’estetica, l’architettura, la socialità.

Il fin de siècle bosano è la premessa di quanto poi si compirà nel Novecento, quando la città cresce e consuma terra fuori dal suo centro matrice: altrove importa costruire case, perché altrove i bosani vogliono abitare. Sa Costa resta invece appesa ad un tempo che non esiste più, a formare un mondo che perde via via centralità, bambini, benessere. Impoveriti e periferici i bosani de Sa Costa vendono. Vendono a prezzi bassi, le case quasi le regalano.

Antonio Atza

Immigrazioni romantiche
A comprare sono soprattutto gli stranieri. Uomini e donne che, rimasti vittima dell’accidente che li ha portati a Bosa, si sono innamorati dei colori dei viottoli, dei rumori che saltellano da un angolo all’altro dell’antico quartiere. Comprano prima gli inglesi, da sempre affamati di Mediterraneo, di vita da vicinato e di ritmi lenti, ipnotici. A seguire sbarcano a Bosa tedeschi, svedesi, belgi, italiani del “Continente”, sardi urbani di Sassari e Cagliari. Sono artisti, scrittori, pittori, ex manager che hanno girato il mondo, educatori che parlano 4 lingue, agenti immobiliari: gente a cavallo tra mondi diversi, migranti per professione prima che per scelta.
Comprano per amore romantico o perché scorgono il potenziale economico-culturale della città. E comprano palazzotti antichi, stretti, sviluppati in altezza: un piano terra a giorno, uno superiore dove si dorme, sotto il livello stradale c’è in genere un magazzino, ripostigio per derrate alimentari, vino, grano, attrezzi artigiani.
I palazzotti vengono riassettati secondo linee di gusto artigiano e artistico che li riportano ad uno splendore e ad una luce che forse non hanno mai avuto. Il quartiere risorge reinventandosi e si riprende la sua centralità che da pittoresca si fa presto economica.
All’inizio del nostro secolo la moda culturale del Bed & Breakfast è pratica turistica consolidata e offre gambe e polmoni a chi ha deciso di comprare in Sa Costa. Bosa diventa terminale della corrente turistico-culturale che (anche grazie a Rayanair) porta pezzi di Nord Europa in Sardegna.
Il sogno romantico di alcuni assume forme di business, secondo direttrici orientate da sostenibilità culturale, ambientale, personale. Gli stranieri prendono la residenza in città, diventano bosani; i loro cognomi si affiancano e si mischiano a quelli che nella città ci sono da secoli. Siamo nel nuovo millennio e Bosa si riscopre miscela: di accenti, sensibilità, origini e destinazioni.

La fuga dalla realtà
Il profilo di una Bosa liminale, al confine della realtà quotidiana del viaggiatore, non è dovuto solo a menti romantiche, suggestionate dallo stereotipo eurocentrico con cui i settentrionali del mondo concepiscono i Sud. Bosa è davvero luogo di silenzi, di vicinati invadenti, di tesori ambientali invisibili (e a rischio). L’ambiente naturale che incorona la città ha fattezze di montagna che si scaraventa in mare, con tutto il suo carico di persistenze faunistiche e di tenacia floreale. A dominare questo regno – purtroppo contrastato – è il grifone, che qui ha stabilito l’unica colonia naturale nidificante presente in Italia. Tre metri di apertura alare fanno di questo uccello uno dei rapaci più imponenti in natura, le cui evoluzioni “nuziali” si possono ammirare d’inverno, in gennaio, stagione del corteggiamento.
Quanto sia delicato l’equilibrio naturale che regge il mondo del grifone di Bosa non sta certo a noi spiegarlo. Possiamo intuire però che la sua conservazione sia cruciale per le sorti economiche e culturali bosane. E prima ancora per l’immagine stessa che la città ha assunto in questi ultimi anni: luogo di confine, di tramonti, di silenzi, di rispetto.
Un luogo simile non può non attirare appettiti lontani dal modello sostenibile che la società occidentale di oggi cerca faticosamente di imporsi. “Ancora sconosciuto al turismo di massa” quello bosano è lo scenario ideale per la multinazionale “straniera” in cerca di affari nella terra ricca di ambiente e disoccupazione. Non è il fine a fare spavento, ma i mezzi: fare campi da golf dove c’è macchia mediterranea, calare cemento in aree protette. Tra il dire e il fare c’è poi la promessa di tanti, tantissimi posti di lavoro per i bosani, per i sardi, per le classi politiche locali in cerca di soluzioni a problemi gravi, strutturali ed elettorali.

Quanti ne abbiamo visti di film così? Facciamone un elenco incompleto:  la miniera d’oro di Furtei, con destre e sinistre alleate per la devastazione di un territorio; il petrolchimico sardo, le migliaia di cave che punteggiano ogni singolo comune sardo. E sì che allora non di film si tratta, ma di sceneggiato a puntate. Nel prossimo post vi riassumeremo quello bosano: romane fenici, grifoni, buchi nell’acqua e buche da golf saranno i protagonisti di una storia in cerca di finale, un racconto appeso a decisioni ancora da prendere, sospeso nell’aria che tira con la stessa apertura alare dei noir scritti bene.


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