Sul principio “una testa, un voto” è nata la democrazia. Poiché a ogni cittadino è assegnato un voto, ciascun voto ha lo stesso peso.
Le recenti elezioni hanno però dimostrato che in Gran Bretagna, a causa della legge elettorale vigente, il sistema uninominale secco (o maggioritario a turno unico), non tutti i voti sono uguali.
Come funziona questo sistema? Il Regno è diviso in 650 collegi (constituency), tanti quanti sono i seggi alla Camera dei Comuni, il Parlamento. In ogni collegio i cittadini eleggono il loro rappresentante a Londra: vince il candidato che arriva primo nel proprio collegio, non importa quale sia il suo margine di vantaggio sul secondo, se di un voto o di cinquemila. Non a caso il popolo di Sua Maestà ha soprannominato questo sistema “first past the post”, il primo vince tutto.
Il principale effetto dell’uninominale secco è che si determina una discrepanza fra le percentuali ottenute dai partiti a livello nazionale e il numero di seggi che questi effettivamente conquistano. Ad esempio, gli indipendentisti scozzesi dello Snp, pur avendo ricevuto complessivamente circa un terzo dei voti dei nazionalisti dell’Ukip, si sono aggiudicati un numero di seggi a loro superiore di 56 volte grazie al forte radicamento in un numero ristretto di collegi, quelli scozzesi ovviamente.
Finché la competizione si limitava prevalentemente a un duello fra conservatori e laburisti, i pregi più lampanti dell’uninominale secco, come un rapporto diretto fra eletti ed elettori, e una maggioranza di governo genericamente stabile, sembravano di gran lunga sopravanzare i difetti.
Tuttavia, alla luce della frammentazione del panorama politico britannico, hanno cominciato a emergere una serie di degenerazioni potenzialmente perniciose per la stessa democrazia made in Uk e sempre più contestate dall’opinione pubblica.
Osserviamole con due casi concreti, riportati a titolo di esempio in un recente articolo del Guardian.
- Hannah ha 19 anni, e il collegio elettorale in cui vive è una roccaforte laburista. Questo significa che, votando per il Labour, il suo voto non farà che accrescere di appena un’unità la già amplissima maggioranza di cui gode il candidato del centrosinistra; se al contrario scegliesse un altro partito, il suo voto si disperderebbe silenziosamente nell’inutile prateria del dissenso.
- La coetanea Kathy, invece, abita in un collegio dove la lotta per il seggio parlamentare è un testa a testa fra liberaldemocratici e conservatori. A differenza di Hannah, il cui voto è sostanzialmente irrilevante, quello di Kathy è determinante.
Se però fosse una supporter laburista, Kathy sarebbe costretta a optare per il voto tattico. Non dovrebbe cioè domandarsi quale partito vorrebbe al governo, ma quale NON vorrebbe al governo. Il buon senso le suggerirebbe, quindi, di non sprecare il suo voto dandolo al suo partito di riferimento, il Labour, ma di favorire i liberaldemocratici, così da evitare che il seggio finisca in mano ai conservatori.
Nei giorni che precedevano le elezioni, infatti, molti quotidiani britannici, sia pro-Labour sia pro-Tory, hanno pubblicato liste dettagliate dei collegi incerti per consigliare i cittadini sulla migliore strategia di voto da adottare per impedire al partito rivale di giungere al potere. Nell’immagine a lato, possiamo vedere la guida grafica elaborata dal conservatore Daily Mail, che aveva individuato 50 constituencies chiave in cui gli elettori di centrodestra (Ukip, Tory o Libdem) avrebbero dovuto cambiare bandiera per scongiurare la vittoria laburista.
I casi di Hannah e Kathy sono da evidenziare per almeno due ragioni:
- la prima è che l’uninominale secco, in particolare in quei collegi in cui un partito gode di un consenso praticamente inattaccabile, rischia di ingenerare rassegnazione politica, se non addirittura astensione (un terzo dei britannici, infatti, non si è recato alle urne);
- la seconda è che l’inevitabile voto tattico provoca sia una serie di implicazioni psicologiche forse non così trascurabili (votare per un partito di cui non si condivide il programma può, in fondo, essere vissuto come un tradimento) sia uno stravolgimento sostanziale della libertà di esprimere una preferenza politica.
Alle fine del 2014, ad esempio, il consenso dell’Ukip di Farage, primo partito britannico alle europee, era stimato attorno al 25%, ma il Guardian pronosticava che, per le elezioni di maggio, questa percentuale sarebbe scesa al 15% a causa dei meccanismi della legge elettorale. Il quotidiano londinese, anzi, stimava che ci fossero appena 5 seggi in cui l’Ukip disponesse di alte probabilità di successo. I risultati di venerdì sono stati ancora più drastici: l’Ukip ha ottenuto solo il 12,6% e la miseria di un seggio parlamentare.
Circa la metà dell’elettorato dell’Ukip, ben conscio di essere disperso su tutto il territorio inglese e di essere privo di roccaforti locali, ha quindi rinunciato in partenza a votare per il proprio partito e, di conseguenza, o si è astenuto o ha votato tatticamente i conservatori di Cameron, i cui candidati avevano nei singoli collegi maggiori chance di sconfiggere i laburisti.
Lo stesso è accaduto su scala più ridotta ai Verdi, che solo un anno fa, con il sistema proporzionale in vigore per le europee, avevano sfiorato l’8%.
Nonostante solo pochi anni fa i britannici abbiano bocciato la proposta di modificare l'uninominale secco, da più parti si sta ora levando la richiesta di riformare una legge elettorale ormai considerata anacronistica, che per certi versi richiama alla mente i tempi bui dei cosiddetti “borghi putridi” (di cui abbiamo parlato in questo articolo).
In un pungente intervento sul Guardian, Giles Fraser ha inserito l’attuale legge elettorale tra le cause di un sistema oppressivo e alienante in Gran Bretagna, che ridurrebbe il voto e la democrazia a un mero rituale religioso: si va a votare non perché si speri davvero in un cambiamento, ma solo perché altrimenti non si saprebbe come dimostrare l'appartenenza al proprio Paese.
Alla faccia di chi dice che la legge elettorale non è importante.
Jacopo Di Miceli @twitTagli