Ho deciso: proverò a rileggere e a riflettere su “Greenleaf” un racconto della scrittrice statunitense Flannery O’Connor. Un po’ come ho fatto con “La casa di Chef” di Raymond Carver, che è durato mi pare una ventina di settimane.
C’è qualche ostacolo in più, per esempio la lunghezza della storia. Nel libro edito da Bompiani: “Tutti i racconti”, Greenleaf inizia a pagina 340 per chiudersi a pagina 364.
Perché lo faccio?
Per lo stesso motivo che mi ha spinto ad affrontare quel racconto di Carver. La voglia di re-imparare a leggere, ad andare un poco più in là dell’ovvio, di quelle parole che si susseguono sino alla fine della storia. Ci sono storie e storie, e non tutte sono uguali, checché se ne dica.
Alcune grattano la crosta delle apparenze e svelano cosa c’è dietro. Non credo che siano poi molti gli autori che scavano, si calano nel pozzo per andare a vedere cosa c’è sotto la superficie. Carver e Flannery O’Connor sono di questa pasta.
Ogni parola ha un senso, non è lì perché bisogna riempire la pagina. Lo so: sarebbe necessario leggere l’originale in inglese, e qualcuno potrebbe osservare che ci sono degli ottimi autori italiani che… De gustibus.
In questa maniera si riesce ad apprezzare la cura per ogni dettaglio, si legge e si rilegge scoprendo significati più precisi e profondi di quanto appaia a una prima, rapida lettura. Non ripeterò (ancora una volta) quanto sia importante educare sé stessi alla lettura dei migliori. Capire come la storia si sviluppa e cosa ci nasconde perché la nostra intelligenza comprenda e scopra.
Non ho idea di quando comincerò i post al riguardo (la settimana prossima?), e nemmeno per quante settimane la faccenda mi terrà occupato. Immagino inoltre che non procederò affatto passo passo, ma sceglierò i brani a parer mio più interessanti. Questa scelta è necessaria a causa della lunghezza del racconto. Ma credo che alla fine almeno io avrò imparato qualcosa da zia Flannery.