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Come nasce una stella… pivot

Creato il 02 gennaio 2014 da Media Inaf

Perché alcune stelle sono più grandi di altre? Uno studio da poco pubblicato su ApJ aiuta a far chiarezza sulla formazione delle stelle massicce all’interno della nostra Galassia. Tra i firmatari anche un italiano: Francesco Fontani dell’INAF-Osservatorio Astrofisico di Arcetri.

di Davide Coero Borga Due nuclei sull’orlo di una formazione stellare. Credit: Bill Saxton & Alexandra Angelich (NRAO/AUI/NSF); ALMA (ESO/NAOJ/NRAO)

Due nuclei sull’orlo di una formazione stellare. Credit: Bill Saxton & Alexandra Angelich (NRAO/AUI/NSF); ALMA (ESO/NAOJ/NRAO)

Il pivot è uno dei ruoli standard della pallacanestro. Generalmente è il giocatore più alto della squadra e preferibilmente il più massiccio. Solitamente, gli si richiede di saper sfruttare la sua grande massa soprattutto nei pressi del canestro. A un astrofisico non può che ricordare una stella massiccia, almeno 8 volte superiore a quella del nostro splendente Sole.

Se il pivot è il perno della squadra, le grandi stelle massicce sono fulcro negli studi di formazione delle stelle. Come fanno a crescere così tanto, se la stragrande maggioranza delle stelle nella Galassia sono notevolmente più piccole? Per trovare risposta a questa domanda, un gruppo di astronomi, guidati da Jonathan Tan dell’Università della Florida, e che comprende l’italiano Francesco Fontani dell’INAF, ha utilizzato l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (ALMA, il progetto astronomico sviluppato in collaborazione tra Europa, Nord America, Asia orientale e la Repubblica del Cile) per sorvegliare il cuore di alcune delle più buie, fredde, e dense nubi nella nostra Galassia. Questi oggetti, conosciuti come Infrared Dark Clouds, si trovano a circa 10.000 anni luce di distanza da noi in direzione delle costellazioni dell’Aquila e dello Scudo.

Dal momento che i nuclei delle nubi sono così massicci e densi, la forza di gravità avrebbe già dovuto travolgere la pressione del gas che li sostiene, facendoli collassare in stelle di massa simile a quella del Sole. Ma dal momento che la stella non ha ancora cominciato a brillare, può darsi che qualcosa in più stia sostenendo la nube.

“Un nucleo senza stelle indica la presenza di forze che bilanciano la spinta di gravità, rallentando la formazione stellare e permettendo che grandi quantità di materiale si accumulino in una sorta di ‘versione in scala’ del modo in cui si è formato il nostro Sole”, ha dichiarato Jonathan Tan, autore dell’articolo pubblicato sulla rivista The Astrophysical Journal. “Il che suggerisce che stelle massicce e stelle simili al Sole rispondano a dinamiche analoghe di formazione stellare. E l’unica differenza è la dimensione delle nubi da cui hanno origine.

Le stelle di media grandezza come il nostro Sole iniziano il loro ciclo evolutivo come concentrazioni di idrogeno dense (ma di massa relativamente piccola), elio e altri elementi all’interno di grandi nubi molecolari. Dopo questa fase iniziale il nocciolo di gas comincia a prendere forma e il materiale collassa sotto la spinta della gravità nella regione centrale, dove si possono formare anche i pianeti. Non appena si è accumulata abbastanza massa, si innescano le reazioni di fusione nucleare e si accende una nuova stella. Questo modello di formazione stellare può rendere conto della stragrande maggioranza delle stelle della nostra Galassia, ma serve qualcosa di più per spiegare la formazione di stelle più massicce.

“Qualche forza supplementare è necessaria per bilanciare il normale processo di collasso. Diversamente la Via Lattea dovrebbe avere una popolazione di stelle piuttosto uniformi”, ha spiegato Tan. “In alternativa dobbiamo immaginare due modelli distinti per spiegare la formazione delle stelle: uno per i corpi simili al nostro Sole e uno per le stelle massicce”.

Il team di astronomi provenienti da Italia, Stati Uniti e Regno Unito si è servito di ALMA per guardare all’interno di questi nuclei, alla ricerca di una firma chimica unica capace di dirimere la questione. “Abbiamo scelto di utilizzare la molecola N2D+ (uno ione di azoto e deuterio) come tracciante perché, a differenza del più tradizionale monossido di carbonio (e dei suoi isotopi), conserva un’emissione importante anche a temperatura bassissime e alte densità” ci spiega Francesco Fontani dell’Osservatorio Astrofisico di Arcetri dell’INAF, che ha seguito questa fase centrale dello studio. “Il deuterio è importante perché – prosegue Fontani – tende a legarsi con certe molecole in condizioni di basse temperatura. Una volta che le stelle si accendono e riscaldano il gas circostante, il deuterio viene rapidamente perso e sostituito con il più comune isotopo di idrogeno. N2D+ si è rivelata quindi una scelta vincente perché dalle righe di emissione abbiamo potuto dedurre che i nuclei sono vicini all’equilibrio”. Ci troviamo nel bel mezzo di un processo di formazione stellare del tutto simile a quello del nostro Sole, anche se decine (o centinaia) di volte più grande.

Le abbondanti quantità di deuterio suggeriscono che la nube sia fredda e senza stelle. Indice del fatto che una qualche forza impedisce al nucleo di collassare e lascia il tempo sufficiente alla formazione di una stella massiccia. I ricercatori ipotizzano che potrebbero essere i forti campi magnetici a ‘puntellare’ la nuvola, impedendole di collassare rapidamente.

Queste osservazioni sono state condotte durante la prima campagna scientifica di ALMA. I prossimi studi con le 66 antenne di ALMA potrebbero scoprire ancora più dettagli circa le regioni di formazione stellare.

Fonte: Media INAF | Scritto da Davide Coero Borga



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