Magazine Cultura

Come scrivere un racconto autobiografico (seguito)

Creato il 01 gennaio 2013 da Pamelaserafino

Come scrivere un racconto autobiografico (seguito)Nell'autobiografia si distinguono la fabula e i complementi narrativi, la prima si riferisce alla descrizione essenziale degli eventi della storia nel loro naturale ordine di avvenimento, alla caratterizzazione di base dei personaggi e dei loro ruoli, i secondi si riferiscono a tutte quelle tecniche che l'autore usa per presentare la storia e tutti gli artifici retorici da lui impiegati per realizzare i propri scopi narrativi.
Una prima base per l'elaborazione dell'architettura può essere così ripartita:

Incipit:(la mia vita ha inizio, nacqui, ecc)

Ruit:
(la mia vita ha avuto un corso e prosegue attraversando)

la mia famiglia
educazione ricevuta
amici
amori
fughe, passioni, abbandoni, speranze, sogni, desideri, giochi, incontri

Exit:
(la mia vita si conclude a questo punto almeno per ora)
risultati raggiunti
risultati non conseguiti
capacità
scopi ulteriori

Questa scansione permette di sceneggiare la nostra autobiografia, inizialmente si lascerà libero spazio ai ricordi, di modo che siano annotati liberamente e prendano corpo man mano che li si richiama in vita. Il roirdino avverrà dopo, nel tentativo di connettere in senso diacronico o sincronico i contenuti delle pagine con le tensioni esistenziali indicative dei periodi più significative della nostra vita.

Naturalmente per avere un'idea chiarificatrice di quanto abbiamo detto sin'ora nulla vale maggiormente degli esempi concreti tratti da altre autobiografie. Riporto di seguito alcuni incipit da cui si può prendere spunto.

Incipit di autobiografie famose
Da Malcolm X "Autobiografia" - Capitolo primo - IncuboQuando mia madre era incinta di me, come mi disse in seguito, un gruppo di cavalieri incappucciati del Ku Klux Klan arrivò al galoppo, di notte, davanti alla nostra casa a Omalia nel Nebraska. Dopo aver circondato l'edificio, essi urlarono a mio padre di uscire: erano tutti armati di fucili e carabine. Mia madre andò alla porta principale e l'apri. Stando in piedi, in una posizione tale che potessero vedere che era incinta, disse loro che era sola con i suoi tre bambini e che mio padre era lontano, a predicare a Milwaukee. Gli uomini del clan urlarono minacciosi ammonendola che avremmo fatto bene a lasciare la città perché "i buoni cristiani bianchi" non erano disposti a sopportare che mio padre "facesse opera sediziosa" tra i "buoni" negri di Omaha con quelle idee di " tornare in Africa " predicate da Marcus Garvey.
Mio padre, il reverendo Earl Little, era un pastore battista e uno zelante organizzatore dell'Associazione di Marcus Aurelius Garvey, l'UNIA'. Con l'aiuto di discepoli come mio padre, Garvey, dal suo quartier generale di Harlem a New York, alzava la bandiera della purezza negra esortando le masse a tornare alla loro patria ancestrale in Africa,causa questa che aveva fatto di lui il negro più amato e insieme più criticato di tutto il mondo.
Urlando ancora le loro minacce, gli uomini del Klan spronarono alla fine i cavalli e galoppando intorno alla casa mandarono in pezzi tutti i vetri delle finestre con le can¬ne dei fucili, Poi si allontanarono nella notte con le torce accese, rapidi com'erano venuti.
Quando ritornò, mio padre andò su tutte le furie. Deci¬se di aspettare che io nascessi - cosa che era imminente - e poi di trasferire altrove la famiglia. Non so bene perché egli prese questa decisione: non era un negro che si lasciasse facilmente spaventare come allora erano quasi tutti e come molti sono ancora oggi. Mio padre era un uomo grosso, alto quasi un metro e novanta e aveva la pelle scurissima. Era orbo e io non ho mai saputo come avesse perduto l'occhio. Era nato a Reynolds, nella Georgia, dove aveva fre¬quentato la terza o forse la quarta elementare. Come Marcus Garvey, era convinto che i negri non potessero mai conquistarsi in America nè la libertà né l'indipendenza nè il rispetto di sé e che perciò dovessero lasciare l'America ai bianchi e ritornarsene in Africa alla loro terra di origine. Tra le ragioni per cui mio padre aveva deciso di correre tutti questi rischi e di dedicare la propria vita alla propagazio¬ne di questa filosofia tra la sua gente c'era il fatto che aveva visto quattro dei suoi fratelli morire di morte violenta: tre di essi erano stati uccisi dai bianchi, uno dei quali linciato. Allora mio padre non poteva sapere che dei tre fratelli rimasti, lui compreso, solo uno, lo zio Jim, sarebbe morto nel suo letto per cause naturali. Più tardi, infatti, la polizia bianca del Nord avrebbe ucciso a revolverate mio zio Oscar e, infine, mio padre sarebbe morto per mano dell'uomo bianco
Ho sempre avuto la convinzione che anch'io morirò di morte violenta ed ho fatto tutto quanto era in mio potere per prepararmi a tale evenienza..............

Da Pablo Neruda: "Confesso che ho vissuto"- INFANZIA E POESIAComincerò col dire, dei giorni e degli anni della mia infanzia, che il mio unico personaggio indimenticabile fu la pioggia. La grande pioggia australe che cade come una cateratta dal Polo, dai cieli di Capo de Hornos fino alla frontiera. In questa frontiera o Far West della mia patria, nacqui alla vita, alla terra, alla poesia e alla pioggia.
Per quanto abbia camminato, mi sembra che sia andata perduta quell'arte di piovere che si esercitava come un potere sottile e terribile nella mia Araucania natale. Pioveva mesi interi, anni interi. La pioggia cadeva in fili come lunghi aghi di vetro che si rompevano sui tetti o arrivavano in onde trasparenti come le finestre, e ogni casa era una nave che difficilmente giungeva in porto in quell'oceano di inverno.
Questa pioggia fredda del sud dell'America non ha le raffiche impulsive della pioggia calda che cade come una frusta e passa lasciando il cielo azzurro. Al contrario la pioggia australe ha pazienza e continua, senza fine a cadere dal cielo grigio.
Di fronte a casa mia, la strada si è trasformata in un immenso mare dì fango. Attraverso la pioggia vedo dalla finestra che un barroccio si è impantanato in mezzo alla strada. Un contadino, con un pesante mantello di lana nera, bastona i buoi che fra la pioggia e il fango non ne possono più.
Per i sentieri, posando il piede da una pietra all'altra, contro freddo e pioggia andavamo al collegio. Gli ombrelli se li portava via il vento. Gli impermeabili erano cari, i guanti non mi piacevano le scarpe si inzuppavano. Ricorderò sempre i calzini bagnati accanto al braciere e una fila di scarpe che sbuffavano vapore, come piccole locomotive. Poi venivano le inondazioni, che si portavano via le baracche dove viveva la gente più povera, vicino al fiume. Anche la terra, tremante, si scuoteva. Altre volte sulla cordigliera spuntava un pennacchio di luce terribile: il vulcano Llaima si svegliava.
Temuco è una città pioniera, una di quelle città senza passato, ma con botteghe di ferramenta. Gli indios non sanno leggere e così le botteghe di ferramenta ostentano nelle strade i loro notevoli emblemi: un immenso saracco, una pentola gigantesca, un lucchetto ciclopico un cucchiaio antartico. Più in là, le calzolerie, uno stivale colossale.
Se Temuco era la avanzata della vita cilena nei territori del sud del Cile, ciò significava una lunga storia di sangue.
Sotto la spinta dei conquistatori spagnoli, dopo tre¬cento anni di lotta, gli araucani ripiegarono in quelle regioni fredde. Ma i cileni continuarono quella che ven¬ne chiamata "la pacificazione dell'Araucania ", la continuazione cioè di una guerra a ferro e fuoco, per spo-gliare i nostri compatrioti delle loro terre. Contro gli indios, tutte le armi furono usate generosamente: il colpo di fucile, l'incendio delle capanne, e poi, più pa¬ternamente, la legge e l'alcool. L'avvocato divenne anche uno specialista di saccheggio dei loro campi, il giudice li condannò quando protestarono, il prete li minacciò col fuoco eterno. E alla fine, l'acquavite consumò l'annientarnento di una razza superba le cui gesta, il cui valore e la cui bellezza Don Alonso de Ercilla lasciò incise in strofe di ferro e di diaspro nel suo "Araucana".
I miei genitori erano arrivati da Parral, la città in cui nacqui. Lì, nel centro del Cile, crescono le vigne e il vino abbonda. Senza che me lo ricordi, senza sapere di averla guardata con i miei occhi, mia madre, donna Rosa Basoalto, morì. Io nacqui il 12 luglio 1904 e un mese dopo, in agosto, sfinita dalla tubercolosi, mia madre non c'era più.
La vita era dura per i piccoli agricoltori del centro paese. Mio nonno, don José Angei Reyes, aveva terra e molti figli. I nomi dei miei zii mi parvero di principi di regni lontani. Si chiamavano Amòsm Oseas, Joel, Abadias. Mio padre si chiamava semplicemente José del Carmen. Se ne andò giovanissimo dalle terre paterne e lavorò come operaio nei bacini di drenaggio del porto di Talhuano per finire ferroviere a Temuco.
Era conducente dì un treno della ghiaia. Pochi sanno cos'è un treno della ghiaia. Nella regione australe, dai grandi uragani, le acque porterebbero via le rotaie se non si stendesse un letto di sassi fra le traversine.
Bisogna andare a prendere con dei cesti la ghiaia dalle cave e caricare il pietrisco sui carri merce. Quaranta anni fa l'equipaggio di un treno di questo tipo doveva essere formidabile. Venivano dai campi, dai sobborghi,dalle carceri. Erano braccianti giganteschi e muscolosi. I salari dell'impresa erano miserabili e non si chiedevano precedenti a chi voleva lavorare sui treni della ghiaia.. Mio padre era conducente del treno. Si era abituato a comandare e ad obbedire. Qualche volta mi portava con sé. Caricavamo pietra a Boroa, cuore silvestre della frontiera, teatro delle terribili lotte fra spagnoli ¬ed araucani.
La natura, lì, mi dava una specie di ebbrezza. Mi attiravano gli uccelli, gli scarabei, le uova di pernice. Era miracoloso scoprirle nelle fessure, brunite, scure e lucenti, di un colore simile a quello della canna di un fucile. Ero sbalordito dalla perfezione degli insetti.
Raccoglievo le " madri della serpe". Con questo nome stravagante veniva chiamato il più grande coleottero nero brunito e forte, il titano degli insetti del Cile. ...........

Da R.Dahl: "Boy"- Papà e mamma

Mio padre, Harald Dahl, era un norvegese che veniva da Sarpsborg, una cittadina vicina a Oslo. Suo padre, mio nonno, era un commerciante abbastanza facoltoso che aveva a Sarpsborg un negozio in cui si vendeva di tutto, dal formaggio alle reti metalliche per pollai.
Sto scrivendo questo nel 1984, ma quel mio nonno era nato, pensate, nel 1820, poco dopo che Wellington aveva sconfitto Napoleone a Waterloo. Se mio nonno fosse vivo oggi, avrebbe centosessantaquattro anni. Mio padre ne avrebbe centoventuno. Sia mio padre che mio nonno ebbero figli molto tardi.

Caterina di Russia
Sono nata il 21 aprile 1729, cioè quarantadue anni fa, a Stettino in Pomerania. Sembra che tutti aspettassero un maschio e che non fossero per nulla contenti ch'io nascessi per prima, ma mio padre dimostrò più soddisfazione di quanti lo circondavano.

Elias Canetti
Il mio più lontano ricordo è intinto di rosso. In braccio ad una ragazza esco da una porta, davanti a me il pavimento è rosso e sulla sinistra scende una scala pure rossa.

Emmanuel Carnevali
Ricordo una stanza bianca, con bianca luce di sole che filtra da altre finestre: in essa mia madre e una vecchia signora tutta bianca stanno chine su di me. Potevo avere dai due ai tre anni

Da GiuseppeGaribaldi: "Memorie"- I miei primi anni
Nacqui il 4 luglio 1807 in Nizza Marittima, verso il fondo del porto Olimpio, in una casa sulla sponda del mare.
Io ho passato il periodo dell'infanzia, come tanti fan¬ciulli, tra i trastulli, le allegrezze ed il pianto, più amico del divertimento che dello studio.
Non approfittai il dovuto delle cure e delle spese in cui s'impegnarono i miei genitori per educarmi. Nulla di strano nella mia giovinezza. Io ebbi buon cuore, ed i fatti seguenti, benché di poca entità, lo provano.
Raccolto un giorno al di fuori un grillo, e portatolo in casa, ruppi al poveretto una gamba nel maneggiarlo:
me ne addolorai talmente, che, rinchiusomi nella mia stanza, io piansi amaramente per più ore.
Un'altra volta, accompagnando un mio cugino a caccia nel Varo, io m'era fermato sull'orlo d'un fosso profondo, ove costumasi d'immergervi la canapa, ed ove trovavasi una povera donna lavando panni.
Non so perché, quella donna cadette nell'acqua a testa prima , e pericolava la vita. Io, benché piccolino ed imbarazzato con un carniere, mi precipitai, e valsi a trarla in salvo.
Ogni qual volta poi trattossi della vita d'un mio simile, io non fui restio giammai, anche a rischio della mia.
I primi miei maestri furon due preti; e credo l'inferiorità fisica e morale della razza italica provenga massime da tale nociva costumanza. Del signor Arena, terzo mio maestro d'italiano, calligrafia e matematica, conservo cara rimembranza.
Se avessi avuto più discernimento ed avessi potuto indovinare le future mie relazioni cogli Inglesi, io avrei potuto studiare più accuratamente la loro lingua, ciò che potevo fare col mio secondo maestro, il padre Giau¬me, prete spregiudicato e versatissimo nella bella lingua di Byron .
Io ebbi sempre un rimorso di non aver studiato dovutamente l'inglese, quando lo potevo, rimorso rinato in ogni circostanza della mia vita in cui mi son trovato cogli Inglesi.
Al terzo laico istitutore, il signor Arena, io devo il poco che so, e sempre conserverò di lui cara rimembranza, sopratutto per avermi iniziato nella lingua patria e nella storia romana.

Il difetto di non esser istruiti seriamente nelle cose e nella storia patria è generale in Italia, ma in particolare a Nizza, città limitrofa, e sventuratamente tante volte sotto la dominazione francese
Io devo dunque, in parte, a quella prima lettura della nostra storia, ed all'incitamento di mio fratello maggiore Angelo, che dall'America mi raccomandava lo studio della mia, e più bella tra le lingue, quel poco che sono pervenuto ad acquistarne.
Io terminerò questo primo periodo della mia vita colla laconica narrazione d'un fatto, primo saggio dell'avventure avvenire.
Stanco della scuola, ed insofferente d'un'esistenza stanziaria io propongo un giorno a certi coetanei compagni miei di fuggire a Genova, senza progetto determinato, ma in sostanza per tentare fortuna. Detto, fatto: prendiamo un battello, imbarchiamo alcuni viveri, attrezzi da pesca; e voga verso levante. Già erimo all'altura di Monaco , quando un corsaro , mandato dal mio buon padre, ci raggiunse, e ci ricondusse a casa, mortificatissimi...............

Come si può notare dall'analisi di questi incipit lo spunto di inizio può essere di vario tipo: sensoriale, che si apre soffermandosi appunto sulla registrazione di dati sensoriali da cui prende origine il ricordo oppure figurativo e scenico in cui si raffigurano precisamente scene o quadri di vita che a volte hanno anche preceduto la vita stessa del soggetto.
La variabilità degli incipit è quindi del tutto soggettiva ed affidata interamente alla volontà dell'autore che deve avere bene in mente quale sia l'incipit ovvero quel ricordo, quell'immagine da cui far scaturire il seguito della sua storia.

Come scrivere un racconto autobiografico (seguito)

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog