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A soli trentatre anni Gosling è già una stella del firmamento hollywoodiano: dopo Clooney e Sean Penn è in uscita con il nuovo Refn, senza dimenticare la partecipazione in uno dei misteriosi progetti di Malick; da tali premesse posso asserire che, pur non conoscendo in profondità la sua filmografia, concentrandomi sugli ultimi quattro o cinque film in cui ha recitato è possibile scorgere in almeno tre di essi una scrittura dei personaggi da lui interpretati volta a delineare una nuova figura dell’eroe moderno, eroe che non per forza deve indossare il mantello per sottolineare il proprio status (accettare un figlio non legittimo: Blue Valentine, 2010) e che anche quando lo indossa (Drive, 2011) rivela sotto l’uniforme un cuore grande che batte per chi gli sta accanto. In The Place Beyond the Pines(2012) navighiamo in acque limitrofe, il suo ruolo è caratterizzato da un romanticismo che sta quindi diventando tipico: né troppo mellifluo, né troppo ostinatamente riposto in quelle fibre muscolari, bensì “giusto”, o qualcosa che gli si avvicina, e la diretta conseguenza è che il Gosling di questi film piace, c’è poco da fare: l’appeal, il carisma, che emana nella direzione dello spettatore (maschile e femminile indistintamente) è forte e cementa l’empatia. Quindi bravo Gosling ad accettare tali proposte, e bravi Refn e Cianfrance ad aver calibrato sul corpo di questo ragazzone nato in Canada un modello attoriale che funziona. D’altronde l’impressione del sottoscritto vedendo Come un tuono è stata che sebbene Gosling abbandoni il set ad un terzo dell’opera, la sua non-presenza scenica è così forte che nei restanti due terzi è come se fosse stato sempre lì a sgasare con la motocicletta.
Due parole su Derek Cianfrance (idem come sopra).
Blue Valentine fu apprezzato da chi scrive per l’azione svecchiante sul genere: vero che si trattava di una normale storia d’amore, ma vero anche che la conformazione data dal regista trasmetteva una certa freschezza. Con Come un tuono Cianfrance alza la posta in gioco e partorisce un’opera inevitabilmente più complessa della precedente poiché si fa contenitore categoriale riunente etichette diverse, tre e forse più approcci che cavalcano una porzione di storia americana. La concertazione di questa pluralità è valida, almeno fino a quando non ci si mette a fare i pignoli: vi sono all’interno della sceneggiatura delle costrizioni narrative che trasmettono un’avvertibile rigidità, sottolineo quella che a mio avviso è più evidente: non sono riuscito pienamente a credere alla rabbia cieca del figlio di Luke disposto a fare valere i diritti del proprio padre fino a quel momento mai visto, nemmeno in fotografia. Mancano dei presupposti convincenti a dare linfa a ciò che poi sfocerà nella scena madre del film, e se vogliamo anche il comportamento di Luke stesso che da spericolato ribelle passa a padre premuroso (ma sempre spericolato) è additabile di un’assenza di premesse che legittimino il cambio di rotta. Nei su una superficie che Cianfrance stende su tematiche e argomenti che non si esauriscono di sicuro dopo una sola visione, ergo: è comunque doveroso tenere sott’occhio questo regista, l’abilità nel saper e nel voler raccontare è dote che lo premia e che dà fiducia per il futuro.
Una parola su Come un tuono.
I lustrini del cinema americano orbitano ad una distanza di sicurezza nonostante il film sotto esame sia intriso di americanità su tutti i fronti (nello script, nei meccanismi, nello sguardo sulla provincia, nelle musiche [Bruce Springsteen]); è imperfetto e temerario, se vogliamo anche didascalico nell’esposizione dei legami sentimentali, però galoppa spedito verso la meta lasciandoci un sapore di epopea a stelle e strisce che non infastidisce per la sua opulenza. Incompleto o no, l’importante, per quanto mi riguarda, è che questo affresco yankee esista.
Meglio non sprecare parole sulla traduzione italiana del titolo.
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