Ermetismo, ritardi, permessi che non arrivavano. Alla fine ci si è di messo di mezzo anche il maltempo, che ha costretto una parte della delegazione delle Farc, compreso il numero due Iván Márquez, a guadare fiumi in piena nella foresta colombiana per giungere all’appuntamento in Norvegia.
Le trattative di Oslo, tra Farc e governo colombiano, sembravano essere diventate una corsa ad ostacoli, ma alla fine sarà quella del 18 ottobre la data che ufficializza l’inizio dei negoziati di pace. Al tavolo, oltre ai garanti di differenti nazionalità (norvegesi, cubani, cileni e venezuelani) siederanno dieci rappresentanti del governo di Josè Manuel Santos e dieci delle Farc. Quello norvegese sarà però solo il preambolo di un processo diplomatico destinato a durare mesi e che sposterà presto la sua sede all’Avana, dove saranno discussi in concreto i dettagli del piano che dovrebbe infine portare la pace in Colombia.
L’ottimismo è d’obbligo. Gli ultimi sondaggi indicano che quasi l’80% dei colombiani è a favore del processo. Mai come ora le due parti sono vicine alla soluzione di un conflitto estenuante, che dura ormai da più di quaranta anni e che rappresenta oggi un anacronismo in un’America latina che è cambiata fondamentalmente e che ha consolidato le sue istituzioni democratiche. Intanto, anche se una tregua vera e propria non è stata siglata, si moltiplicano i segnali di distensione. L’accordo, a parole, è quello di creare un clima conciliatore che è percepito in Colombia come la premessa per una risoluzione positiva dell’intero processo.
Senza rancore o arroganza. Con questi termini Rodrigo Londoño Echeverry, alias Timochenko, comandante in capo delle Farc, aveva accettato la proposizione fatta dal governo colombiano di accudire ad Oslo. Un invito che non poteva passare disatteso, visto che tende la mano ad un’organizzazione in evidente impasse militare e la dota di un riconoscimento politico che la legittima a tutti gli effetti. L’occasione è unica e offre alle Farc l’opportunità di spogliarsi della scomoda identità di gruppo terrorista, colluso al narcotraffico, per proporsi con tutta l’ufficialità del caso nella scena politica colombiana. Lo sa bene Timochenko, 53 anni, pratico e opportunista, che ha preso il posto del dogmatico Alfonso Cano, ucciso in combattimento due anni fa, e che vede il futuro della Fuerzas Armadas Revolucionarias tra gli scranni del Congresso di Plaza de Bolívar, a Bogotá. Capitale dove, intanto, sono scese in piazza le organizzazioni umanitarie, che chiedono che non vengano dimenticati i desaparecidos di questa guerra e che sia le Farc che il governo, ora che sono seduti insieme attorno ad un tavolo, si impegnino a rendere pubbliche le informazioni degli avvenimenti che hanno portato alla scomparsa di queste persone.
La pace, insomma, è questione seria e, come riconoscono negli ambienti di governo, deve essere trattata con discrezione per non ripetere gli errori commessi nel passato. Il presidente Juan Manuel Santos ha ricalcato, in questo contesto, che il processo si costruisce giorno dopo giorno con i fatti, un riferimento nemmeno troppo velato alla sua legge per la restituzione delle terre Ley de Víctimas y Restitución de Tierras, che ha aperto il primo varco per un avvicinamento alle Farc. Da falco a colomba, per Santos la pace è questione di prestigio.
Che il presidente guardi alla rielezione non è un segreto, ma rimane un dato di fatto, che il suo pragmatismo è appoggiato dai colombiani che assecondano, in grande maggioranza, il processo di pace, indifferenti alle concessioni di cui beneficeranno i membri delle Farc, a cominciare dal blocco all’estradizione negli Stati Uniti dei suoi principali rappresentanti. Stando così le cose, con un Santos rafforzato (malattia volendo) governo e guerriglia avranno a disposizione molto tempo per rafforzare le basi di un accordo di cui ha bisogno non solo la Colombia, ma tutta l’America latina.
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