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Con barzellettiere incorporato

Creato il 07 aprile 2015 da Annalife @Annalisa
Se stava a casa era meglio

Se stava a casa era meglio

Già il titolo del post, capisco, non depone a suo favore (a meno che voi non amiate alla follia i libri di barzellette, nel qual caso non andate avanti a leggere e comprate il libro del fachiro), ma davvero a un certo punto avrei preso il fachiro e glielo avrei dato sulla testa, il suo letto di chiodi.
Il fatto è che, dalle prime pagine, lo scopo principale dell’autore/fachiro sembra quello di essere disinvoltamente divertente, per la serie: sono spiritosissimo ma non me la tiro per questo, però vedi quanto ti faccio ridere.
Faccio un esempio, cioè, sì, vi racconto brutalmente una delle barzellette più frequenti nei primi capitoli. La chiameremo “l’equivonome” (a stare con gli spiritosi, si impara a spiritosare): il fatto è che il protagonista è un fachiro, e i fachiri hanno nomi del tipo Ajatashatru, i marajà dei fachiri hanno nomi come Lhegro Singh Lhe e così via. Perciò, nei primi capitoli, ogni volta che viene nominato il fachiro, suo cugino Pushpak o il suo marajà o chiunque altro il cui nome a noi suoni strano, tra parentesi trovate il corollario: “si pronuncia Push-up”).

Push-up è il cugino, mentre il nome del fachiro, Ajatashatru, si pronuncia Ganascia-da-gru all’inizio del secondo capitolo, Accatta-sta-gru la pagina dopo, Accasciati-Artù alla fine della stessa pagina e così via. Il marajà si pronuncia, ovviamente, Allegro-single, la madre adottiva Sihringh si pronuncia The Ring, eccetera.
Perciò, riassumendo, ogni volta che, nei primi capitoli, trovate un nome come sopra, esso è seguito da una parentesi che spiega: “si pronuncia [segue battutona]”.
Io già alla terza battutona avrei fatto mangiare le pagine al fachiro.
Comunque, dopo un po’ questa cosa del si-pronuncia, si perde. Un po’ perché non ci sono più nomi così interessanti da pronunciare, un po’ perché, all’inizio della seconda parte, dopo “L’uomo disse di chiamarsi Wiraj (si pronuncia Viraggi)” anche l’autore si rompe le balle delle battutone e ci comunica che “Kougri, Basel, Mohammed, Nijam e Amsalu (si pronunciano come vi pare”), un po’ perché si varia la barzelletta: sempre coi nomi, però, che vengono storpiati inventandosi dei personaggi come Sophie Marciò, bella attrice francese (vi ricorda qualcosa?) e cose del genere, oppure giocando su (divertentissimi…) equivoci (“Lesse l’ora su un orologio sportivo… che doveva appartenere a un certo Patek Philippe”, ah ah ah).
A metà del libro cominciano gli inserti di attualità pensierosa: si parla di clandestini, migranti, espulsioni, morti in mare, tutti inseriti con leggerezza (Ajatashatru deve continuare a farci ridere con le sue peripezie) ma comunque intenzionati a farci capire che mentre noi ridiamo delle battutone (ah ah ah), c’è gente che muore, ha fame, è in guerra e così via.
A volte, poi, l’attualità pensierosa diventa esplicita (“la sua unica colpa era di essere nato dalla parte sbagliata del mediterraneo, là dove la miseria e la fame…”, “La situazione politica del Sudan aveva fatto precipitare il paese in un marasma economico che aveva spinto un gran numero di uomini, i più robusti, sulla strada pietrosa dell’emigrazione. Ma anche i più forti, fuori dal loro ambiente, diventavano persone vulnerabili, animali maltrattati con lo sguardo senza vita, con gli occhi pieni di stelle spente. Lontano da casa ridiventavano tutti bambini impauriti che nulla poteva consolare se non il successo dell’impresa”). Forse, sono i momenti meglio scritti del libro, che tuttavia si perdono (che io mi ero persa nella prima lettura) per il continuo tentativo di mantenere alto il genere fachiro-comico (copyright Stefano Benni) o di conquistare il titolo di “risposta europea a Hollywood party” (copyright Stefano Bartezzaghi). Oppure, al contrario, invece di perdersi emergono in maniera dissonante con osservazioni del tipo: “Perché alcuni nascevano qui e altri là? Perché alcuni avevano tuto e altri niente?”.
Dopo di che, si gira pagina e si osserva che il fachiro (venendo a sapere del Sudan e compagnia) “non pianse come un vitello (sacro) ma una greve cappa di piombo eccetera”. La battuta non ce la si lascia scappare.
In più, ci sono le storie del gitano tassista, dei clandestini sul camion, di quelli che vorrebbero partire dall’Africa, e persino la storia-nella-storia, di quando il fachiro decide di trasformarsi in bravo e onesto scrittore e noi leggiamo anche l’inizio del suo libro scritto in modo avventuroso durante la sua divertente avventura dentro una valigia.
Be’, insomma, non ne potevo più.
Certo, i recensori ufficiali (quelli dei quotidiani, quelli pagati) la vedono al contrario: si parla di cose serie ma senza la deriva drammatica o finto-umanitaria, e “quello che va in scena alleggerisce i toni”.
Io continuo, ahimè, a essere legata alla prima impressione: quella di aver letto il libro di un tizio che mi ha detto subito: vieni qui che ti faccio ridere, e poi ha cercato di farlo a tutti i costi. Se mai lo rileggerò (come ho fatto ora per trovare le citazioni) sarà per rivedermi le parti meno volutamente sceme e forse più interessanti.

(e comunque l’Ikea ha voluto che si togliesse il suo marchio dalla copertina dell’edizione francese)



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