Se l’Europa non funziona, meglio andarsene in America latina. L’hanno capito perfettamente centinaia di aziende che dal Vecchio continente stanno emigrando oltreoceano. Con un tasso di sviluppo medio del 5% annuale, i paesi latinoamericani attirano investimenti e, allo stesso tempo, amplificano i vecchi mali del rapporto tra imprenditoria e cosa pubblica, corruzione prima fra tutte. Lo sviluppo latinoamericano ha permesso in questi ultimi anni di colmare la breccia tecnologica proponendo un subcontinente che è una referenza nel panorama affaristico internazionale, con tutti i pro e contro che questo comporta.
In testa agli investimenti europei in America latina c’è ovviamente la Spagna. Nonostante i grandi piagnistei della Repsol espropriata in Argentina (quello stesso giorno il colosso petrolifero firmava in Bolivia un succulento contratto per l’estrazione di gas naturale), le aziende spagnole che investono all’estero ricavano i due terzi dei loro attivi proprio in America latina. Telefónica, BBVA, Santander, Endesa sono le più grandi e non è un segreto che le loro operazioni nei paesi latinoamericani abbiano generato alti profitti. Soldi, che invece di essere destinati all’investimento locale, vengono inviati in madrepatria a tappare le falle generate dalle operazioni in Europa. Proprio questo comportamento da neo colonialismo è alla base del malcontento generato in Argentina dalla Repsol (azienda che ha ottenuto qui benefici valutati due volte e mezzo gli investimenti) e terminato come sappiamo.
Oltre alla crescita sostenuta delle economie, le aziende straniere stanno prendendo in considerazione l’alta importanza dei trattati commerciali che permette loro di negoziare non solo con un paese alla volta, ma con un gruppo: Mercosur, Can, Caricom, Unasur, Nafta e Cafta aprono più di un mercato alla volta. L’America latina è oggetto di una pericolosa febbre da grandi opere e sono in tanti ormai ad aver fiutato l’affare.
E le italiane? Pirelli ed Enel già da anni hanno scommesso sull’America latina. Mentre la Pirelli ha aumentato i suoi investimenti in Brasile, Venezuela e nell’area Nafta, l’Enel è diventata nel 2007, con l’acquisizione della spagnola Endesa, il primo operatore privato elettrico in America latina. I suoi mercati principali sono Cile, Colombia, Perù, Argentina, Brasile ed il Centroamerica. La Fiat e la Luxottica in Brasile, la Impregilo a Panama, la Ansaldo in Argentina sono altri esempi della presenza italiana. Una presenza spesso ingombrante. Il recente scandalo della Finmeccanica a Panama, che si basava proprio sulla fornitura di motovedette e sistemi per la difesa aerea, ci ha ricordato che l’Italia ha venduto fregate ed aerei al Perù nonchè veicoli blindati al Brasile, contribuendo al riarmo in zone calde della regione.L’America latina può diventare un rifugio dorato per le imprese e, conoscendo la famelicità delle multinazionali, ha bisogno di un quadro giuridico preciso e severo. Non si può infatti lasciare che lo stesso capitalismo selvaggio che ha ridotto l’Europa ad una distesa inaridita, si contagi oltreoceano. Il controllo dello Stato deve essere rigoroso e non cadere nella trappola gestionata dai trattati commerciali, che riducono il raggio d’intervento delle nazioni e dei popoli. Il rischio, lo sappiamo tutti, è quello di incrementare lo sfruttamento locale per pagare i conti, quelli che non tornano, nella patria sommersa dalla crisi.