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Con Mauro Boselli: Dampyr, Tex e il lavoro in Bonelli – Seconda parte

Creato il 28 aprile 2014 da Lospaziobianco.it @lospaziobianco

Molti disegnatori e autori dicono di trovarsi molto bene quando devono lavorare con o per te. Evidentemente tu riesci a interagire positivamente con i tuoi colleghi.
Ti ringrazio per quello che hai appena detto ed effettivamente  credo che la maggioranza di loro la pensi così. C’è anche una leggenda che corre,riferitami da qualcuno, che dice quanto sia terribile lavorare con me, ma credo  sia stata diffusa da chi non ha mai lavorato con il sottoscritto… o che è stato bocciato dopo i primi tentativi…
È chiaro che sono molto esigente, soprattutto con gli sceneggiatori. È questa una caratteristica della Casa editrice, lo era anche di e di Decio Canzio, poiché, alla Bonelli, la narrazione ha la precedenza. Quindi lo sceneggatore non ha scuse, se sbaglia. Il disegnatore, invece, vero artefice della parte visibile del fumetto, viene trattato con i guanti e sempre perdonato. Non che  vengano condonati loro gli errori, certo. Se c’è da ridisegnare, ridisegnano. Ma teniamo conto del fatto che il loro lavoro è più lungo e difficile.
Per Sergio, chi doveva dirigere la regia della storia era lo sceneggiatore e il disegnatore doveva seguire ciò che egli stabiliva. Ecco perché io sono molto più severo con gli sceneggiatori, che devono essere assolutamente perfetti.

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Tavola di Alessio Fortunato da Dampyr #143

Personalmente mi sforzo di cambiare continuamente soggetti e storie e di instradare i miei colleghi soggettisti a fare sceneggiature a prova di bomba, in modo che il disegnatore non sbagli ed esegua quello che c’è scritto in sceneggiatura. Mi secca molto, e ci rimango male, quando un disegnatore mi dice che c’è un errore nella sceneggiatura, che una sequenza non si può disegnare o che i personaggi non possono stare nella posizione stabilita. In questo caso è chiaro che la guida, chi deve fare la regia, ha sbagliato e questo è grave: è come se John Ford o Charlie Chaplin avessero detto di posizionare la macchina da presa in un punto impossibile e la troupe li guardasse stupita sapendo che quell’inquadratura è sbagliata.
Detto questo però, io rispetto lo stile di tutti, sia per quanto riguarda il dialogo che il disegno. In Dampyr questa cosa si nota di più, mentre in Tex effettivamente c’è uno stile tradizionale da seguire. In Dampyr lascio totale libertà d’interpretazione, non cerco di unificare tutto sotto una precisa scelta grafica, come invece per esempio fa Giancarlo Berardi su Julia (scelta peraltro legittima e che funziona molto bene anche sotto il profilo delle vendite). Preferisco lasciare briglia sciolta sullo stile personale, anzi, prediligo i disegnatori che hanno uno stile individuale e riconoscibile, anche quando è bizzarro. Ad esempio, ultimamente abbiamo arruolato nella squadra di Dampyr Alessio Fortunato, che ha un segno molto personale, e Michele Cropera. Poi chiaramente m’impunto con tutti loro quando si tratta di essere fedeli alla storia e raccontare bene, perché non basta il bel disegno, ma bisogna essere capaci di sviscerare e rappresentare quello che lo sceneggiatore chiede in quella determinata vignetta, e su quel punto lì sono inflessibile. Alla fine finiscono per darmi ragione.

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La tavola d’esordio di Maurizio Dotti su Tex #637

Mi è sembrato che nell’esordio di Maurizio Dotti su Tex (#637-640), tu in certi momenti lo abbia assecondato, anche nelle inquadrature di alcune scene. Dotti è molto efficace in alcune prospettive dal basso e ci sono molte scene nei quattro albi della saga di El Supremo, dove anche la tradizionale gabbia bonelliana viene “adattata” allo stile del disegnatore.
Io porto sempre ad esempio Maurizio Dotti per l’equilibrio perfetto che ha tra la “narratività“, cioè la capacità di narrare, la profondità di campo e le atmosfere e ambientazioni che riesce a creare. La profondità di campo è quando tu metti un personaggio in primo piano, di scorcio, e dai l’idea della prospettiva in modo che il resto della scena ti appare come se tu la stessi veramente vivendo e vedendo con i tuoi occhi. Questa è una cosa che Dotti fa molto bene e l’ho capito fin dalla prima volta che ho visto le matite che lui faceva per Alarico Gattia.
Ancora non conoscevamo neppure il nome di Maurizio, non lo avevamo neppure incontrato di persona, vedevamo solo le matite per la storia dell’Almanacco del West del 1998. Da lì lo abbiamo chiamato e gli abbiamo fatto fare prima Zagor e poi Dampyr e io porto a esempio questa sua capacità, che avevano anche Marcello, per certi versi, e Giovanni Ticci, di offrire una profondità di campo che ti fa essere presente sulla scena. Molto spesso dico ad altri disegnatori che preferiscono i campi lunghi e le panoramiche che la profondità di campo con una falsa soggettiva è molto importante.
Un altro che lavora molto sul close up è Claudio Villa, a volte esagerando un po’, oppure Marco Santucci: sono entrambi autori che ti fanno sentire in mezzo all’azione.
Però ci sono degli equilibri da rispettare. Il grande Villa si innamora molto spesso del primo piano, Santucci invece fa delle inquadrature angolate che si addicono di più alle storie horror che al West (e infatti adesso Marco lavora su Dampy). Tornando a Maurizio Dotti, invece lui è classico, ha appreso la lezione dei direttori della fotografia di John Ford, e sa molto bene quando c’è bisogno di profondità o quando è il caso di narrare da lontano e chiaramente la sceneggiatura asseconda queste qualità.

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Claudio Villa – Tavola originale di Tex

Ci sono poi altri autori molto bravi con cui collaboro che si approfittano di me, qualche volta, e lascio correre; molto spesso, quando chiedo di fare “un trequarti”, in prospettiva, di busto, per dare questa impressione di profondità, vedo invece arrivare una scena in cui i due personaggi  sono laterali, in piano americano, se non addirittura a figura intera. E lì mi chiedo come mai l’autore perda di vista la mia richiesta, anche se non intervengo quasi mai in questi casi perché evidentemente il disegnatore non sente nelle sue corde questa tecnica.
Una pagina deve avere un equilibrio, anche drammatico oltre che estetico e narrativo. Alla Bonelli, e questa è una regola non mia che a molti lettori sfugge, non si vedranno mai tavole composte di una serie ripetuta di primi piani, come invece avviene per esempio in un fumetto come Dago, peraltro un capolavoro, salvo qualche eccezione molto rara, dovuta a stringenti esigenze narrative o di drammaticità. Le tavole di un fumetto bonelliano devono avere varietà equlibrata, per cui in ognuna deve esserci il primo piano, il campo lungo e la panoramica: non deve mai esserci un affastellamento di un tipo solo di queste inquadrature. Ed è la lezione di Sergio Bonelli.
Io questo bilanciamento cerco sempre di trovarlo; per esempio, sto lavorando con un ottimo autore di Tex, che è alla sua seconda storia e che ha imparato a modificare il suo disegno per far sentire il lettore nel vivo dell’azione, mentre nella sua prima esperienza era rimasto più distante, più lontano.
Un altro artista molto bravo a metterti nel vivo dell’azione, anche con inquadrature molto raffinate, è Pasquale Frisenda, sempre restando tra i “nuovi” autori di Tex.

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Lo Zagor di Michele Rubini

E con Michele Rubini sulla saga di Zagor “Nel mondo perduto” (#575-577) come ti sei trovato?
Michele Rubini è un altro tra i papabili futuri disegnatori di Tex. Al momento lo stiamo usando un po’ come jolly; l’ho prestato, a malincuore, a Claudio Chiaverotti e sta disegnando il primo numero della sua nuova serie; finirà finalmente una storia doppia di Dampyr molto importante, incentrata sul Dampyr del passato, il bardo Taliesin, amico di Amber Tremayne e poi, finalmente, dovrebbe provare a fare Tex.
Mi pare che nella storia di Zagor sui dinosauri se la sia cavata egregiamente, riuscendo a dare molta drammaticità a una storia che, apparentemente, si rifà all’avventura vecchio stile, di stampo ottocentesco. La carica dei dinosauri da lui disegnata ha una forte componente drammatica e, dal punto di vista grafico, riesce a immergerti, per il suo realismo, nel pieno dell’azione.
Anche nelle panoramiche, pur essendo lui un autore autonomo e originale, deve molto al suo maestro Stefano Andreucci che anche nelle storie di Zagor, per esempio quella ambientata in Africa, aveva disegnato vari paesaggi con cascate, etc. e che era capace di questo stacco incredibile tra il primo piano e lo sfondo, con una drammaticità degna di autori classici del passato come Alex Raymond e Russ Manning.

Una caratteristica molto evidente che traspare dalle storie da te scritte è che tu sei un lettore onnivoro che legge moltissimo.
È vero, in questi giorni sto terminando la lettura di un libro western di Elmore Leonard intitolato Gunsights, ho terminato un libro su Kant, sto rileggendo Le anime morte (di Nikolaj Gogol N.d.R.) che avevo già letto tanti anni fa e ho appena finito I miserabili (di Victor Hugo N.d.R.) in francese e un libro in inglese sul direttore d’orchestra Wilhelm Furtwangler. Quindi, sì, leggo parecchio.
Leggere è fondamentale per “rifornirsi”, i libri sono per gli autori come i grassi da bruciare per gli atleti.

Curi molto nel particolare le ambientazioni delle tue storie: in Tex, come in Dampyr come in Zagor. Come imposti il lavoro di documentazione di una storia? Avviene in seguito all’idea della storia stessa o talvolta è la storia che nasce come spunto da una ricerca di materiale documentativo?
Lo spunto nasce sempre da qualcosa che già conosco, poi chiaramente lo approfondisco. Alle volte devo approfondire moltissimo: per esempio, nel caso della storia di Dampyr sull’Angola tutto ciò che avevo letto era qualche notizia dai giornali, quindi poi mi sono letto tre o quattro libri sull’argomento.
Stessa cosa per la storia ambientata in Cecenia: conoscevo quello che dicevano i giornali e mi sono andato a cercare dei libri, difficili da trovare, devo dire.
In genere faccio così, altre volte sono argomenti che conosco bene e mi basta rinfrescare la materia. Per quanto possa sembrare strano, non uso quasi mai internet, che invece ritengo molto utile per quanto riguarda l’apparato iconografico e cui oggi per quel verso è impossibile rinunciare.
Una volta si doveva andare sul posto a fare centinaia di fotografie o cercare le immagini sui libri, cose che facciamo ancora, le fotografie soprattutto, ma ormai in internet c’è praticamente tutto.
Ovviamente tutto questo lavoro di ricerca e documentazione si riferisce molto più a Dampyr che a Tex, che non ha una vera necessità di documentazione; al limite basta conoscere la storia del West e, per non commettere errori, si vanno a controllare alcuni particolari. Ma in fin dei conti quello di Tex è un west mitico per cui non è neanche strettamente necessario che l’immaginario corrisponda alla realtà.
Però, per esempio, per una storia futura che ambienteremo a New York – finalmente Tex andrà nella Grande Mela – ricorrerò ad alcuni libri che possiedo (poiché internet in questo caso non basta affatto), che illustrano l’architettura newyorkese dell’Ottocento.
New York è un argomento che mi piace, sulla sua storia possiedo diversi libri, e ho già scritto una storia di Dampyr ambientata nella New York dell’Ottocento.

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Hai una predilezione per le storie ad ampio respiro, che si sviluppano in più albi. La loro caratteristica però è di non essere storie “diluite”, bensì dense e ricche.
Riesco a fare anche storie in un solo albo, come accade spesso in Dampyr, ma anch’esse sono piene, anzi le “concentro” ancora di più.
Innanzitutto c’è una regola che mi propongo sempre di rispettare, che è quella di fare storie ricche, che ripaghino il lettore dei soldi spesi; forse questa non è più una regola attuale, perché ormai è vero che la gente legge sempre meno e sempre più distrattamente. E purtroppo questo è un fenomeno che è andato aumentando negli ultimi quattro, cinque anni e molte colpe le hanno, a mio avviso, Twitter, Facebook e compagnia. È calata anche la capacità di concentrazione, però io sinceramente me ne infischio e vado avanti per la mia strada, perché mi piacciono le storie intense; il tempo di lettura di un albo, secondo Sergio Bonelli, doveva essere superiore alla mezz’ora. Se tu prendi i primi Dylan Dog di Tiziano Sclavi ti rendi conto di quanto tempo ci voleva per leggerli, e lo stesso GL Bonelli scriveva dialoghi molto corposi.
Quindi a me piace inserire tanti spunti anche nelle storie brevi, particolari, sottotrame, osservazioni: tutto però deve essere ricondotto, ovviamente se la storia mi viene bene, non tanto all’azione principale, ma a quello che voglio raccontare. Non devono essere appunti o divagazioni inutili, messi lì tanto per stupire o con un fine didascalico.
D’altronde i miei autori preferiti sono gli scrittori-fiume, come Cervantes, Ariosto e Dickens: adoro i loro libri pieni di personaggi e le loro vicende che s’intrecciano.
Infatti, l’intreccio si chiama così perché richiede una trama che altro non è che un intreccio di fili: per cui le storie semplici che partono da A, passano da B e arrivano a C non mi interessano.

Su LSB abbiamo ospitato alcuni interventi sulla critica nel fumetto. Lo spunto da cui siamo partiti è stato l’affermazione di un autore di fumetti, di qualche tempo fa, che diceva “Per recensire un fumetto si dovrebbe saperlo fare o avere provato a farlo”. La tua idea in proposito qual’è?
Parlando con Guglielmo Nigro, un po’ di tempo fa, dicevo che ci si accinge a fare critica su un certo medium di comunicazione, oppure su una forma d’arte, ne deve conoscere i meccanismi, da critico. Non è che deve essere un poeta, un pittore o un fumettista. Però, se non conosce i fondamentali di quella forma artistica, allora non può farne la critica. Un semplice lettore, o un semplice fruitore d’arte, che si limita semplicemente a dire “questo è bello” o ” questo non mi piace” non fa critica seria. Per farla deve avere un’ottima conoscenza della storia dell’arte, conoscere le varie tecniche di composizione che stanno dietro la realizzazione, per esempio di un dipinto. Lo stesso vale nel campo musicale: se vuoi fare il critico musicale devi conoscere la musica, così come i critici letterari devono conoscere la storia della letteratura e le strutture narrative.
Io non credo che molti di quelli che fanno critica sul fumetto abbiano  conoscenze del genere, giacché a volte prendono delle cantonate paurose. Nell’analisi di una storia spesso confondono ciò che è sceneggiatura con ciò che è disegno. Richiamando in causa il vostro Guglielmo Nigro, pur considerandolo uno dei più intelligenti, dei più colti e dei più preparati tra coloro che scrivono sul fumetto, ho polemizzato con lui perché a volte confonde le necessità di un prodotto seriale con quelle di un prodotto autonomo.
Quello che conta, ciò che è fondamentale, è la conoscenza dell’argomento. Ma non il saperlo fare. Anzi a volte è vero il contrario, un autore di fumetti non è necessariamente un buon critico.

Fine seconda parte

 Intervista realizzata telefonicamente tra il 18 e il 25 febbraio 2014

 

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