di Aurora Romanucci.
Notti di fuoco
La luce limpida del sole si infrangeva dolcemente sul viale alberato in una mattina d’inverno. La città cominciava a svegliarsi e gli ubriachi della sera precedente si levavano al suono delle voci e dei passi dei lavoratori che scendevano in strada e con loro si svegliava anche il piccolo Caffè che dava sul viale. Da una finestra del palazzo di fronte si affacciava pensieroso lo scrittore, scontento dei risultati della notte insonne che aveva visto nascere e morire una decina di storie che non avrebbero mai visto altro che il pavimento della soffitta in cui erano state partorite. Questa fu la scena che si ritrovò a contemplare da dietro la vetrina girando inutilmente il caffè non ancora zuccherato mentre ripensava a quell’infausta notte e si sorprese a sfiorarsi il ventre, come a voler proteggere il suo segreto, perché per sua fortuna era troppo presto perché questo si palesasse al mondo e certamente era grata al freddo che la costringeva ad indossare indumenti che le consentivano di nascondere qualunque possibile segnale d’allarme agli occhi indiscreti della gente.
Fu durante quell’esposizione: le si era avvicinato commentando con parole altisonanti il quadro che lei si era incantata ad ammirare criticandone la linea di contorno, il colore, steso in modo quasi infantile, e il soggetto, così banale!
“Non le pare, signorina?”
“Direi di no: piuttosto ritengo che dai suoi commenti emerga una totale mancanza di sensibilità artistica.”
“Concordo con lei.”
Era stato il sorriso incantatore, combinato con quei profondi occhi verdi, oltre che la singolare affermazione, a farla sorridere. Si avvicinò una distinta signora che esibiva elegantemente le perle su un raffinato abito nero accompagnata da un uomo il cui panciotto faticava a contenere le floride forme e che raggiungeva l’altezza della donna solo grazie all’elegante tuba.
“Mi complimento con lei: le suo opere sono meravigliose!”
“Troppo gentile, Madame.”
Seguirono alcuni convenevoli, durante i quali i due si scambiarono mezzi sorrisi e sguardi esterrefatti che passarono totalmente inosservati agli occhi della strana coppia.
“Mi permetta di offrirle un bicchiere di vino.”
Ricordava quel periodo come il più felice della sua, seppur breve, esistenza. Il ricordo di quell’amore la fece sorridere. Si chiedeva ancora come fosse riuscita a tenere segreta la relazione alla sua famiglia, ma soprattutto si chiese come avrebbe potuto nasconderne i frutti in primavera: certo non avrebbe potuto confessare di aver mentito per tutti quei mesi, non ora che il danno era stato fatto.
Prese a camminare sul viale, nonostante le scarpe le facessero male per via dei piedi gonfi e la stanchezza che la accompagnava fedelmente da tre mesi la invitasse a desistere, e la sua mente la riportò su quel ponte buio dove vide spegnersi la sua felicità.
Quella sera, su quel ponte, sotto quel cielo stellato in cui le stelle si erano rifugiate dietro spesse nuvole di pioggia, lui le aveva chiesto di leggerle una poesia, una di quelle che teneva solo per sé, primo fra tanti era riuscito a convincerla e -con grande stupore di lei- rivide nei suoi occhi la stessa luce che aveva sentito nei suoi ammirando il quadro che aveva sancito l’inizio di quella strana storia.
E poi l’esplosione. Era già lontana quando sentì il boato, ma lui… lui era rimasto ad osservare il fiume scorrergli sotto agli occhi, occhi che smettevano in quel preciso istante di vedere. Voci di bambini svegliati nella notte dal peggiore degli incubi, luci accese in lontananza e il grido di dolore che si leva sulle macerie.
Continuava a camminare senza sapere dove la stessero conducendo i piedi, sempre più stanchi, sempre più gonfi. Vide in lontananza la strana coppia dell’esposizione che le faceva un cordiale cenno di saluto che ricambiò distrattamente.
L’aveva osservata giorno e notte. L’esplosione aveva distrutto la sua casa e la sua famiglia ora giaceva ancora sotto le macerie, ma lei era sgattaiolata via dalla stanzetta che divideva col fratellino per andare, come suo solito, a nutrire i cuccioli della gatta che per lungo tempo l’aveva seguita fedelmente. Aveva sentito il boato, poi grida, pianti e quell’unico urlo straziante che si imponeva su tutto il resto e poi la corsa: una corsa frenetica, disperata, che muoveva le sue piccole gambe di bambina spinte dalla curiosità e dalla paura verso il centro dell’esplosione. La vide dirigersi verso le macerie cadute nel fiume e cercare, cercare, cercare fino alla disperazione. La gente intorno la osservava basita, ma nessuno si mosse per aiutarla, così si fece largo per aiutarla e prese a spostare macerie.
Tornata a casa, scoprì che quella del ponte non era stata l’unica esplosione di quella notte: pianse tutte le lacrime di cui era capace sotto lo sguardo indifferente dei sopravvissuti che si affaccendavano a cercare di recuperare tutto il possibile e quando si accorse di non avere più lacrime da piangere, si unì a loro nella febbrile ricerca di qualcosa. Fu quando all’alba ritrovò il suo adorato pupazzo sotto quello che una volta era stato il soffitto della sua stanza che ritrovò parte della lucidità e decise che avrebbe cercato quella ragazza.
Aveva girato tutta la città per giorni e quando l’aveva vista camminare sul viale, si era soffermata ad osservarne i tratti: i lineamenti delicati e la pelle chiara le ricordarono la sua mamma e un singhiozzo le impedì un’inspirazione. Le si parò davanti e le sorrise.
Quel pomeriggio, mentre nel mondo imperversava la guerra, si rifugiarono nei parchi e nei viali e sembrava che nemmeno la paura potesse interrompere quel loro idillio: una di loro comprese il significato del sentirsi genitore e pregustò le tenerezze e i sacrifici che in pochi mesi l’avrebbero accolta e l’altra poté riassaporare l’affetto materno che le sembrava ormai così sconosciuto, così lontano sebbene non fossero passati che alcuni giorni e rividero l’una nell’altra la possibilità di ricominciare una nuova vita, la possibilità di riempire il vuoto nelle loro esistenze con la semplice presenza dell’altra e ricostruire la parte del loro cuore che la guerra gli aveva strappato via.
Così quando la città fu bombardata nuovamente, le videro ripararsi a vicenda dalle esplosioni continue, le videro fuggire e raggomitolarsi nel pallido tentativo di sfuggire alla morte e le ritrovò la mattina seguente lo scrittore, ancora abbracciate, sotto un cumulo di macerie mentre anche lui come tanti smuoveva le rovine alla ricerca di qualcosa da salvare e rimase immobile a guardarle, ad osservare il loro disperato abbraccio e riconobbe i tratti così diversi. Poi, prima ancora che avesse il tempo di riordinare i pensieri, le parole cominciarono ad accendersi nella sua testa: ora aveva una storia da raccontare.