Uno dei principali segreti/miti/fantasie delle arti marziali consiste nella capacità di aumentare la resistenza del proprio corpo (tessuti molli e ossa), rendendolo in grado di produrre e subire colpi di maggiore intensità. Tutto ciò si traduce nelle celeberrime dimostrazioni di rottura di oggetti (legno, mattoni, cemento, pietra) con varie parti corporee, e nella resistenza a urti e colpi.
Sebbene l’origine di queste metodiche si possa trovare nel kung fu tradizionale cinese, e segnatamente nello Shaolin (tecnica della “camicia di ferro”), varie arti marziali si avvalgono di concetti simili, come lo shiwari nel karate, oppure il condizionamento delle tibie sui fusti del banano nella muay thai.
Tutto questo è di certo molto interessante e suggestivo, perché avvicina i praticanti delle arti marziali a figure leggendarie, in grado di fare sostanzialmente di tutto. Ma quanto di questo è realtà, e cosa c’è alle spalle di queste pratiche?
A livello scientifico ci si può basare innanzitutto sulla legge di Wolf, che, sintetizzando, enuncia: “Ogni stimolo funzionale porta ad una modificazione dell’osso”; e sulla legge di Roux: “Ogni aumento di forza pressoria costituisce una stimolazione per la formazione di nuovo tessuto osseo”.
Dunque, in buona sostanza, la pratica di colpire ripetutamente superfici dure produce micro-fratture ossee, che vengono riparate dal corpo aumentando la densità ossea interna (data la struttura spugnosa dello scheletro) e producendo calcificazioni superficiali (calli ossei) nonché dermiche.
Queste considerazioni sembrano avvalorare le tesi dei fautori del cosiddetto condizionamento, che porta atleti a rompersi letteralmente le ossa, nella speranza che queste diventino sempre più forti.Attenzione, perché, come da secoli avverte la tradizione buddista, la rigidità è propria della morte, la flessibilità della vita. Siamo certi che ossa più dense siano effettivamente più resistenti?
In realtà allenamenti eccessivi o semplicemente errati producono traumi e fragilità, in accordo ad altre leggi biologiche, come Delpech: “Ogni volta che un osso è messo in una posizione abituale anormale, la sua crescita diventa anormale e tende a deformarlo; pressioni costanti e sproporzionate rallentano la crescita dell’osso”; ma anche Arnolt-Schulze: “Deboli eccitamenti danno origine ad attività vitale, eccitamenti medi la stimolano, quelli forti la danneggiano, quelli violenti la arrestano”. La linea di demarcazione è perciò molto sottile, e nemmeno sempre visibile. A volte dietro a improvvisi infortuni sportivi c’è infatti il progressivo deterioramento di specifici componenti fisiche. Detto questo si può inferire sull’effettiva utilità dei risultati, in uno scenario sportivo, ma anche reality-based, che certo non presuppone l’abbattimento a mani nude di ostacoli naturali, come porte, muri, ecc…
Si prendano in considerazione anche gli effetti a lungo termine dell’allenamento fisico. Come saranno fisicamente questi atleti pesantemente condizionati a 50 anni? I ripetuti violenti traumi articolari di certo lasciano tracce, che evolvono per accrezione, ed è ipotizzabile uno scenario artrosico/artritico anche debilitante.
Non è un caso che i professionisti più accorti, proprio per allungare la carriera agonistica, si tutelino in allenamento utilizzando protezioni abbondanti, come doppi para-tibie per calciare al sacco, ad esempio.In conclusione un allenamento condizionante va preso in considerazione con molta serietà e competenza, trattenendo dalla tradizione solo gli elementi effettivamente validi e trasferibili alla nostra realtà.
Gli allenamenti fai da te, la pratica indiscriminata, sebbene indice di passione e dedizione, possono rappresentare un pericolo anche serio all’integrità fisica, e devono essere soppesati anche sulla bilancia della convenienza. Meglio un supplemento di forza e resistenza, o un supplemento di tecnica e velocità?
In medio stat virtus, e in questo caso la locuzione sembra ancor più significativa.
Train hard, train smart!