Sabato pomeriggio, mentre stavo correndo sul lungodora in direzione del parco della Colletta, ho visto due uomini della polizia stradale in moto dapprima affiancare un ciclista, poi parlargli mentre ancora erano in movimento, e infine fermarlo. Uno dei due agenti ha tirato fuori il blocchetto delle multe e io, incredulo per quanto stava accadendo, mi sono avvicinato per capire come stavano le cose.
Il ciclista era stato fermato perché dal lungodora Voghera aveva svoltato sul ponte per via Carcano passando con il rosso. Non ci potevo credere. Multare un ciclista è il modo più facile per guadagnarsi la giornata, ho pensato. Un po' come quando i bulli a scuola se la prendono con i più deboli per farsi dare il pranzo. Evidentemente devono portare a casa un tot di multe a turno e un ciclista è una preda golosa: lo cogli sul fatto, non può scappare, e un po' ci godiamo pure a massacrare sti stronzi de ciclisti. Ho guardato i due agenti della polizia con gli eyes of shame, avrei voluto anche mettermi a protestare ma non riuscivo a emettere un cazzo di suono uno da questa maledetta gola.
Una volta ripreso a correre, mi sono messo a pensare e ripensare alla vicenda. In fondo il ciclista aveva commesso un'infrazione ed era giusto che venisse punito. Togliendo tutto ciò che c'era di emotivo e lasciando il solo raziocinio all'opera, era una conclusione lampante. Sbagli e paghi. Però allora dovremmo multare anche tutti i pedoni che attraversano con il rosso, no?
Forse ci sono, come sempre, due diversi livelli di legge: uno legale e uno morale/sociale. Nessuno multerebbe un pedone che passa con il rosso (ho controllato, e Google dice che i casi si contano sulle dita di una mano), anche se nessuno potrebbe opporsi a una multa del genere perché legalmente valida senza se e senza ma.
E se questa legge morale vale per il pedone che è utente debole della strada, perché non può valere anche per i ciclisti, anch'essi utenti deboli?
Lasciando questa domanda per aria, ho cambiato punto di vista per osservare la questione da un altro lato.
Ho pensato che noi ciclisti abbiamo questo senso di superiorità, di missione, e, allo stesso tempo, di vittimismo che insieme sono un mix letale perché portano alla distorsione della realtà e spalancano la porta all'integralismo più estremo (ok il post linkato è davvero un po' estremo, ma la logica sottesa è la stessa), ed è mia opinione che i ciclisti lo stiano diventando sempre di più.
Osiamo manovre azzardate, ci barcameniamo con destrezza tra mille gli ostacoli urbani, tagliamo strade magari senza volerlo, abbiamo un'innata fiducia nelle nostre capacità, pensiamo che per noi qualsiasi eccezione si possa fare, e tutti quelli che si frappongono fra noi e il nostro traguardo sono degli incompetenti, degli inquinatori, schiavi dell'abitudine e per questo meno degni di noi di muoversi nella città, mentre noi abbiamo sempre ragione e dovremmo essere intoccabili. Un po' come avrebbe dovuto esserlo quel ciclista di lungodora Voghera.
Il ragionamento che facciamo è "non solo io mi faccio il culo ad andare in bici in una città che alle bici non concede nulla, facendo quello che sembra la prova del fil rouge di giochi senza frontiere ogni singolo giorno; mi sacrifico anche per la patria per renderti il mondo più verde e pulito; faccio un favore persino all'amministrazione comunale perché ti trancio via parte del traffico e delle PM10, e tu osi togliermi l'unica cosa che mi tiene ancora in sella, vale a dire la libertà?"
La libertà è la gioia di ogni ciclista, quella scintilla che ti fa innamorare delle due ruote e che nessuna sfilza di di ostacoli e sfighe urbane riesce a eguagliare. La libertà di non essere confinato sulla strada. La libertà di poterti fermare per fare una foto. La libertà di non essere bloccato nel traffico. La libertà di poter non sottostare a (tutte) le regole. Come i semafori rossi. Con i miei colleghi ciclisti, uno dei mantra che si è affermato nel tempo è "se ti fermi ai semafori rossi, allora la bici a che serve?"
Eppure il senso di ingiustizia c'è e si sente tanto. Perché al pensiero di quel povero sventurato del lungodora si affianca l'immagine del centinaio di macchine in doppia fila in Piazza Vittorio il sabato sera. E allora uno si chiede davvero se non valga la pena di abbandonarsi alla lotta senza quartiere più totale, come quel ciclista che confessa di aver sputato sul vetro della macchina parcheggiata sulla pista ciclabile.
Il punto è che per i ciclisti a Torino c'è davvero pochissimo spazio e ancor meno considerazione. E quindi spazio e considerazione vengono presi con la forza, o barattati con altri privilegi che pedoni e auto non possono avere.
Ma gli estremismi e gli integralismi, a cui è facile cedere viste le condizioni attuali, non portano comunque a nulla, se non al peggioramento della situazione.
Nella città ideale il cittadino può essere di volta in volta pedone, ciclista e automobilista, a seconda del tragitto, della destinazione e delle necessità. Torino però non è la città ideale.
In Italia la dualità auto-pedone è ormai consolidata da decenni, mentre la bicicletta è un mezzo nuovo. Fino a cinque anni fa in effetti i ciclisti urbani erano davvero pochi. Il cambiamento quindi non deve essere solo a livello pratico e concreto ma anche psicologico: degli amministratori prima, e dei cittadini poi.
Ma è qui che l'amministrazione dovrebbe fare la sua parte, promuovendo l'uso della bicicletta e agevolando chi usa la bici come mezzo di trasporto quotidiano. Qualcosa si è già fatto, altri progetti sono on the way, ma il Comune sta facendo tutto senza convinzione. Lo sta facendo, mi sembra, solo perché ci sono le associazioni che rompono le palle. Come se si parlasse sempre dei ciclisti della domenica (i famosi) e non di quegli altri.
Il pezzo mancante della questione, a mio parere, è proprio questo: l'amministrazione comunale non ha capito che la bici può essere (ed è già) usata sistematicamente come mezzo di trasporto quotidiano, e che incentivare questo uso gioverebbe a tutta la città per le conseguenze su traffico, PM10, pulizia, stress, salute e altro; insomma non ha capito quegli assiomi che ogni ciclista urbano ha fatto propri. E finché ci si parla su due livelli diversi non si arriverà mai a capirsi. E la strada mi pare ancora lunga.