Confessions: la Fiera della Negatività

Creato il 07 maggio 2013 da Dietrolequinte @DlqMagazine

Cristian Sciacca 7 maggio 2013

Dopo tre anni dalla sua realizzazione, arriva in Italia Confessions (Kokuhaku il titolo originale che significa appunto confessioni), l’ultimo film del giapponese Tetsuya Nakashima, regista conosciuto in Occidente grazie a lavori come Kamikaze Girls (2004) e Memories of Matsuko (2006), opere rappresentanti del suo stile, ricco di colori ed attenzione ai dettagli, con ritmo per lunghi tratti da videoclip. Confessions si apre con una professoressa, Yuko Moriguchi, che, annunciando alla sua classe l’addio all’insegnamento, rivela ai ragazzi di sapere chi di loro aveva assassinato sua figlia di quattro anni, il cui decesso era stato archiviato legalmente come un incidente. Il lungo monologo iniziale dà il via ad un susseguirsi di eventi che portano all’unica strada che la donna può e vuole intraprendere: la vendetta. Come si evince dal plot, la pellicola rappresenta una cesura rispetto alla produzione passata di Nakashima, non tanto dal punto di vista formale, quanto da quello della poetica e dei contenuti. La struttura policentrica della narrazione, dove convergono i racconti (anzi, le confessioni) dei vari personaggi, attraverso cui è possibile apprezzare la loro visione del mondo e la loro evoluzione, facilita il coinvolgimento dello spettatore, che viene a contatto con una realtà nella quale il male si propaga di particella in particella, di persona in persona, in cui nessuno è innocente (nemmeno i ragazzini) semmai vittima e al tempo stesso carnefice. Provare compassione per ogni singolo componente del dramma è una conseguenza del gioco a massacro messo in scena da Nakashima. Basandosi sul romanzo omonimo di Kanae Minato, il cineasta nipponico descrive un mondo in cui la negatività regna sovrana, in cui «la vita è sottomessa al raggiungimento dell’obiettivo personale» (citando la giovane Mizuki), in cui genitori e figli si rendono agnelli sacrificali delle colpe reciproche.

Non c’è spazio per redenzione, né per un filo di speranza: è un universo che va veloce verso l’autodistruzione, in cui i media sono una micidiale arma a doppio taglio, in cui ogni individuo si scopre estremamente solo (assolutamente non casuale l’insistere del regista sull’avanzare della tecnologia) e in cui, per mostrare al mondo (inteso a volte come la propria madre, altre come sé stessi) la propria esistenza, si è disposti sin dall’età dell’innocenza ad annullare ogni residuo della propria parte cosciente. Tanta carne al fuoco dunque, tanti temi già affrontati nel cinema asiatico e non: come nel coreano Old Boy, la vendetta è forza motrice, il compiersi del destino ineluttabile in un’atmosfera da tragedia elisabettiana. Il tutto inquadrato perfettamente da una fotografia dai toni freddi. Parafrasando l’Haneke de Il nastro bianco (che a sua volta citava un verso biblico) qui le colpe dei padri ricadono sui figli tanto quanto quelle di questi sui primi, in un circolo vizioso del quale non è possibile intravedere una fine né durante lo svolgimento (in cui prevale un costante senso d’angoscia, sottolineato dalla colonna sonora firmata anche Radiohead) né tantomeno nel finale, che lascia prevedibilmente con l’amaro in bocca.

Tuttavia, nonostante la potenza emotiva e narrativa e l’indubbia qualità tecnica, c’è da dire che Nakashima a volte calca la mano: soprattutto nella parte centrale si avverte un certo compiacimento stilistico, a causa di continue ridondanze (come l’insistere quasi ossessivo sui ralenti) che fanno sì che il film viaggi per quasi tutto il tempo pericolosamente al confine fra virtuosismo formale ed esercizio di stile. Senza questa tendenza ad andar sopra le righe, il prodotto finale sarebbe risultato ancor più apprezzabile. Confessions dunque è un’opera di rara ferocia, da vedere almeno una volta, possibilmente due per apprezzarne tutte le sfumature ed interrogarsi sulle pesanti problematiche che la storia solleva. Non un capolavoro, ma l’ennesimo esemplare di buon cinema nipponico.


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