La maggior parte degli studiosi non mettono in dubbio che l’ebraico sia la lingua più antica. Inoltre si sa dalla storia sacra che prima della costruzione della Torre di Babele tutti gli uomini parlavano una stessa lingua, e che poi, dopo la confusione, si crearono vari e diversi linguaggi: molti ve ne sono affini all’ebraico, e specialmente quelli di Nazioni più vicine a Babilonia, da cui derivarono tutti gl’idiomi. Tali sono la lingua caldaica, l’arabica, la siriaca e l’etiopica. L’albanese, paragonato nella sua purezza all’ebraico, assomiglia talmente al caldaico che le parole sul muro contro Baldassarre re dei Caldei, ed interpretate da Daniele: “farsin u techel mene mene”, suonano come fossero albanesi, e quelle che più si avvicinano nel senso sono: manë manë = misurarono, misurarono, ti chel = tu porti, fare = niente. Ed in effetti si potrebbe credere che queste parole siano proprio albanesi, o dell’antichissima lingua dell’Epiro, che Daniele, unico esperto in quel linguaggio, interpretò, mentre i Savi del Regno caldaico non poterono intenderlo affatto.
Ma per far vedere più dettagliatamente il genio di questa lingua originaria dell’Epiro, corta, monosillabica e vibrata in modo tale che pare esprima solo suoni piuttosto che parole, mi piace di aggiungere qui poche righe di traduzione dell’inizio del cap. 3° del Cantico dei Cantici, là dove la sposa si lagna, perché passò la notte cercando l’oggetto dei suoi amori e non lo trovò. Intendo fare questo raffronto perché, siccome la lingua ebraica esprime concetti complessi con poche parole, meglio e più chiaramente si veda come la lingua albanese, emulando l’ebraico anche se in poche voci, forse addirittura con meno termini dell’ebraico riesce ad esprimere un maggior numero di concetti, tanto che potremmo metterla nel novero delle lingue naturali.
Bikascti balleloth miscchabi Hal
Bikascthiu: naphsci sceaaba eth
Na akuma: metzathiu lo ve
…. bahir asobeba va
Me strat tim në nat chercova atë
Ghi dò zëmëra ime: e chercova
as ghieta: ‘nciume nanì ‘mbë kambë,
e vete për në Giutet et ce.
Se qualcuno volesse prendersi la pena di contare le sillabe dell’una e dell’altra scrittura, ne troverebbe meno nell’albanese, che nella ebraica, calcolando nella prima le mute. Ma per mostrare ancora di più l’indole primordiale della lingua di cui trattiamo, ottimo consiglio mi sembra di proseguire il paragone con l’ebraica. Una lingua si può paragonare ad un’altra o nella concisione, o nel suono, o nelle parole stesse, o nella sintassi. Confrontando il suono delle vocali, sarà buona cosa esaminare le vocali dell’una e dell’altra lingua che abbiamo deciso di confrontare. Le vocali in sostanza sono cinque: a, e, i, o, u. ma siccome si possono pronunciare con un suono o largo o stretto e per di più sono soggette ad una tale gradazione che dal più stretto si passi al suono più largo, cosi, quantunque siano cinque, possono crescere a tante quante l’uso di un linguaggio avrà voluto. La lingua ebraica ha tredici vocali, vale a dire che le cinque vocali fondamentali diventano tredici a secondo del suono ora più largo, ed ora più stretto che s’impiega nel pronunziarle. E perché non si dica che la divisione delle vocali ebraiche in tredici sia un espediente masoretico, introdotto con la punteggiatura, faccio presente che i punti non furono altro che dei contrassegni, che mantenessero più distinto il suono delle vocali, il quale correva pericolo di perdersi, mentre la lingua cominciava a declinare. Da questo assunto possiamo concludere che le tredici vocali siano proprie della lingua ebraica e dire che gli Ebrei, tra strette, larghe, e larghissime, oltre alle mute, dividevano i cinque suoni della voce in tredici tra toni e semitoni, se mi è lecito usare tali vocaboli mutuati dalla musica. Nella lingua albanese le vocali variano in modo che, dalle cinque originarie, diventano molte di più a seconda dei suoni. Eccone gli esempi: in amë (madre) la a non è aperta, ma contiene un suono tra a ed e aemë,amë, ëme; in atà (quelli), le due a sono larghe; in baame (azioni) sono aperte, ma si avvicinano alla e muta; in ati ( padre), la a deve essere pronunziata rapidamente; in ar (oro) la a si dovrà pronunciare diversamente che in ar (noce), e in ar (lavoro, biada). Ar (oro) si pronunzia più rapidamente che ar (noce), in cui, al contrario, la a deve essere pronunciata prolungandola alquanto, raddoppiando la r, e in ar (biada) deve essere pronunziata quasi are.
E in e para, e mira (la prima, la buona) ha un suono naturale: in gurete (le pietre), si avvicina ad una lettera muta. In grue (donna), zonje (signora), somiglia quasi alla a; infatti alcuni pronunziano grua (donna), zonja (signora).
E di hem, come hem Pietri, hem Pali (e Pietro, e Paolo), è stretta.
I si pronunzia lunga come se fosse accentata in alcuni nomi di famiglie, come in Vladagni Zumi, e in sctpi che si dice anche scpì (casa).
I in ti (tu) è larghissima, tanto che, nella pronuncia di alcuni, sembra che suoni ijë, ti (tu). Lo stesso è in ieta (la vita) che si pronunzia anche jeta (la vita).
O in more è larga, come è in dò, particella disgiuntiva, do ti, do ai (o tu, o quello, vuoi tu, vuol quello). In croi (la fonte) ha un suono naturale, in jo (no), ha un suono largo.
U in u (io) è rapida, come in ju (voi): in u che serve per l’intransitivo, che si declina con le regole e coi tempi dal passivo, è vocale stretta, anzi strettissima, per esempio me u ‘mreculuem (meravigliarsi), me u dasciume (essere amato); e di fatto alcuni lo pronunziano come se fosse muta dicendo me të ‘mreculuem, me të dasciume. Alcune volte ha un suono naturale come Turk (Turco).
Tratto dal libro Memoria sulla lingua albanese dell’autore Giuseppe Crispi