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C'è un dato che balza immediatamente agli occhi. Tra i paesi che esportano più di un milione di barili al giorno soltanto due, la Norvegia (1,8 milioni) e il Canada (1,5) sono stati con un sistema democratico maturo. Si può forse aggiungere a questi due il Messico (1,3), che però ha una struttura molto fragile, come dimostra l'incapacità delle istituzioni di quel paese di combattere i grandi trafficanti di droga. Tolti questi tre paesi i maggiori produttori ed esportatori di petrolio sono stati con governi più o meno autoritari, comunque lontani dai canoni delle democrazie occidentali: Arabia Saudita (6,4), Russia (5,4), Iran (2,2), Nigeria (2,1), Emirati Arabi Uniti (2,0), Iraq (1,9), Angola (1,8), Kuwait (1,4), Kazakistan (1,4), Algeria (1,3), Venezuela (1,3), Libia (1,2).
Di fronte a questi dati deve stupire fino a un certo punto la crisi di queste settimane, legate alle rivolte in atto in Tunisia, in Egitto e in Libia e a quelle temute in altri paesi, forse la stessa Arabia Saudita. Rispetto alla prima grande crisi del petrolio, l'embargo del 1973 - che costrinse gli italiani a rinunciare alle auto nelle domeniche dell'austerity - il mercato del cosiddetto oro nero è molto più globalizzato e non è rimasto concentrato nei soli paesi arabi, riuniti nel cartello dell'Opec. Ma quella crisi e quelle successive, che si sono succedute sempre più frequentemente, non ci sono servite a usare meno petrolio, hanno soltanto spinto gli investitori internazionali a comprarlo in un maggior numero di paesi. Secondo i dati dell'Agenzia internazionale per l'energia nel 2010 la domanda di petrolio è aumentata di 2,7 milioni di barili al giorno e nel 2011 è destinata a crescere di altri 1,7 milioni. La globalizzazione del mercato non ha portato maggior sicurezza perché da un lato i venditori, come ho detto prima, sono comunque paesi senza un controllo democratico e con un altissimo livello di corruzione e dall'altro i compratori sono grandi multinazionali sempre più slegate dagli interessi dei governi a cui solo teoricamente dovrebbero rispondere. Per dirla in un altro modo: da una parte i corruttori e dall'altra quelli disposti a farsi corrompere.
Provo allora a fare un ragionamento puramente e strettamente utilitaristico, da cultore della realpolitik, come fossi un sergioromano qualsiasi; non voglio che qualcuno mi accusi di essere un utopista - è successo e probabilmente succederà ancora - e voglio evitare tesi del tipo che è immorale finanziare regimi che negano i diritti umani dei loro cittadini. Questi sono discorsi da "anime belle", da gente che non capisce niente della politica. Lasciando da parte la morale, vorrei che qualcuno di quelli furbi e intelligenti, di quelli che capiscono tutto insomma, ci spiegasse che convenienza c'è a continuare a dipendere per la nostra energia da personaggi equivoci - e forse comunisti - come Chavez, da ex-agenti del Kgb come Putin, da folclorici capi tribali come Gheddafi o da un vecchissimo satrapo come re Abdullah. E' davvero conveniente continuare a investire sul petrolio dal momento che questa risorsa non solo è destinata a finire, ma da qui al momento in cui l'ultima goccia sarà estratta e le scorte planetarie si esauriranno, è gestita da simili governi, magari con il rischio che questi siano persino rovesciati da giovani rivoluzionari, nonostante l'appoggio incondizionato delle multinazionali occidentali e dei governi quali loro mosche cocchiere? Non sarebbe più utile - lo ripeto più utile, non più giusto - provare a investire su un diverso modello di sviluppo, basato su fonti di energie rinnovabili? Aspetto qualche risposta, anche se suppongo che nessuno di quelli che capiscono legga il mio piccolo blog. Personalmente penso che cominciare a pensare a un mondo che faccia a meno del petrolio sarebbe più utile, più economicamente vantaggioso; e sarebbe perfino più giusto, ma questo non ditelo troppo forte.
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