Passando dal globale al locale, o meglio al municipale, è molto significativo quello che è successo in questi anni a Siena, e per qualche verso anche istruttivo. Il Monte dei Paschi è una realtà bancaria molto particolare, legata a filo doppio alla città in cui quell'istituto è nato, cresciuto e prosperato. Proprio perché il Monte è una realtà ecumenicamente cittadina, tutti, da sinistra a destra, hanno condiviso le sorti di quell'istituto: tutti i partiti dell'arco costituzionale della prima repubblica - a differenza del sistema delle casse rurali, feudo rigorosamente democristiano - tutti i partiti della seconda repubblica, la massoneria, la curia senese, i professionisti e gli industriali, l'università. E proprio per questo è significativo che in quel micro-laboratorio, in quello specchio dell'Italia, di un'Italia ricca, di un'Italia provinciale che funziona, che produce, che sa fare rete - da molte altre parti di questo paese non è così - non si sia levata per tempo una voce critica su quello che stava succedendo. D'altra parte era difficile che succedesse, che qualcuno si alzasse in piedi per dire che forse la strada era sbagliata, perché l'ultraliberismo è progressivamente diventato mainstreaming, come dicono quelli che parlano bene, o l'ideologia del pensiero unico, come continuiamo a dire noi vecchi "sinistri". L'idea che il mercato sia un'entità positiva - la sola positiva - che ha in sé la forza di correggere i propri errori è stata la base dell'ideologia reaganiana degli anni Ottanta ed è ancora oggi la tesi di fondo che anima un appuntamento come quello di Davos e soprattutto che influenza coloro che prendono le decisioni, chi guida le autorità finanziarie internazionali, da Draghi a Lagarde, e Trichet e Strauss Kahn prima di loro.
Come sia riuscita questa idea a permeare in maniera così pervasiva la sinistra europea è un tema su cui si dovranno esercitare gli storici, per ora dobbiamo accettare questo dato di fatto. Negli anni in cui tutti - faccio ammenda perché in quegli anni anch'io ho contribuito, nel mio piccolissimo, a questa deriva - ragionavamo della cosiddetta "terza via", in cui veniva prospettato il superamento della divisione novecentesca tra destra e sinistra, in cui si diceva che il centrosinistra avrebbe dovuto trovare il modo di coniugare i propri valori tradizionali con quelli del mercato, come potevano i compagni di Siena immaginare uno schema diverso. La banca cresceva e tutti erano contenti, perché gli unici numeri a cui si badava - e si bada purtroppo - sono gli utili finanziari. Progressivamente il Monte è diventata una banca tra le banche, né migliore né peggiore delle altre, e come le altre ha utilizzato tutti i sistemi per accrescere il proprio patrimonio. Nessuno si è più posto il problema se questi mezzi fossero più o meno leciti, perché il pensiero imperante spiegava - e spiega - che tutti i sistemi sono leciti, pur di ottenere il risultato. E anche adesso mi pare che si accusi Mussari non tanto di aver utilizzato i derivati, ma di averlo fatto male. Mussari si è dimesso perché, per imperizia o per eccesso di ambizione, si è fatto scoprire e molti suoi colleghi di questo lo accusano, non di un sistema che anch'essi quotidianamente utilizzano, su cui lucrano e che permette loro di ottenere ricchi dividendi e stipendi stratosferici. Naturalmente una banca per sua natura non produce "cose", ma dovrebbe avere come obiettivo di far crescere la ricchezza "reale", favorendo chi produce e chi lavora, prestando loro denaro; temo che questo obiettivo non sia tra le priorità di una banca, qualsiasi essa sia. Su questo dovremmo cominciare a interrogarci, al di là di qualche sparata propagandistica sui banchieri che sono tutti ladri o sulla banche da nazionalizzare.
In questi giorni la Cgil ha presentato il suo Piano del lavoro. E' un documento importante, ricco di spunti, a volte un po' involuto - perché il "sindacalese" ha fatto forse più danni del "politichese" - con qualche mancanza - ad esempio si dovrebbe ragionare di più, anche con i numeri, su qual è il giusto e degno stipendio - ma comunque è fondamentale che ci sia. Da qui dobbiamo partire adesso per una riflessione compiuta su questo tema. Ci sono proposte, ci sono numeri e tabelle, non è riassumibile in slogan o in tweet e quindi la sua presentazione non è riuscita a diventare una notizia. I giornalisti inviati alla conferenza programmatica si sono limitati a fare un po' di colore sugli interventi di campagna elettorale dei politici presenti, stilando una sorta di classifica su chi è più o meno vicino alle posizioni del sindacato di Susanna Camusso. Il problema, al di là della difficile comunicabilità del testo, è che per molti questo approccio è spiazzante, praticamente impossibile da recepire, perché, al di là delle singole proposte, il documento dice che il re è nudo, che non è più possibile accettare la logica ineluttabile del capitalismo e dei mercati; questo è per molti una cosa incomprensibile, è una cosa, ad esempio, che il Pd non riesce più - e temo non voglia - fare.
Sul lavoro e su qualcosa che si produce grazie al lavoro, in questi giorni c'è stata un'altra notizia, che non ha goduto di particolare attenzione, come invece avrebbe meritato. Per fortuna ne ha parlato Adriano Sofri, in uno dei suoi molti articoli, mai banali, sulla situazione di Taranto. La notizia è che all'Ilva, nonostante la produzione di acciaio si mantenga poco al di sotto di quanto previsto dall'Aia - ossia sui 7 milioni di tonnellate rispetto a 8 - i dati dell'inquinamento sono sotto controllo: da settembre dell'anno scorso non ci sono più stati superamenti nelle emissioni di pm10. Il merito di questo risultato è il rispetto delle regole. Infatti da quando l'azienda è diretta dai custodi nominati dal tribunale e non più dai manager dell'Ilva si rispettano le regole di produzione e questo comporta una decisa diminuzione dell'inquinamento. Questo risultato non dipende da quanto si produce, ma da come lo si fa: infatti nel 2009, quando la produzione è stata dimezzata, arrivando a 4,5 milioni di tonnellate, non c'è stata una significativa dimunizione delle emissioni delle polveri inquinanti, perché non si cambiarono i metodi di produzione. Nell'articolo di Sofri uno degli operai fa un esempio che chiarisce molto bene la situazione:
Mettiamo che per svuotare un convertitore siano prescritti 4 minuti e tu lo faccia in 30 secondi. Immagina di versare birra in un bicchiere: se la versi velocemente, la schiuma cresce e finisce fuori. L'acciaio non è diverso dalla birra, a parte le conseguenze.Questi dati dimostrano che non è un'utopia coniugare produzione e rispetto della salute e che non è necessario mettere i lavoratori dell'Ilva e le loro famiglie di fronte a una scelta netta: o il lavoro o la salute. Come ha rilevato lo stesso direttore dell'Arpa pugliese questa notizia - una buona notizia, finalmente - non è piaciuta ovviamente ai Riva, perché mette ancora più in luce le loro responsabilità, ma non è piaciuta neppure a chi ideologicamente pensa che l'acciaieria debba chiudere, senza se e senza ma. I custodi, per mancanza di tempo e soprattutto di risorse, non sono riusciti neppure ad avviare i grandi lavori strutturali - che pure rimangono necessari - come la copertura della cokeria, ma i dati dimostrano che basta rispettare le regole che ci sono e che gli industriali non vogliono accettare, perché una produzione più veloce significa un maggior guadagno per loro, a scapito della salute dei lavoratori e dei cittadini, che è un costo sociale di cui naturalmente non vogliono farsi carico. Come nella vicenda del Monte dei Paschi - per questo ho voluto mettere insieme queste due notizie - siamo di fronte a un esempio "normale" di ultraliberismo e non a un fenomeno patologico, come qualche commentatore interessato vorrebbe farci credere. Ancora una volta è da qui che dobbiamo partire, dal radicale e rivoluzionario cambiamento di questo stato di cose.