Nella Giornata Mondiale della Poesia, che il più delle volte coincide col primo giorno di primavera (quest’anno non proprio), viene facile sentirsi leggeri e quasi gioiosi. Non so spiegarvi il perché, eppure è questa la sensazione che il 21 marzo mi regala da anni. Anche se questa giornata è associata contemporaneamente alla memoria delle vittime di mafia. Insomma, il 21 marzo è davvero un mix di cose. Ma io mi soffermerò sulla poesia.
Una delle domande che (mi) rivolgo spesso è certamente la più comune: a che serve la poesia? E qui c’è già la prima contraddizione: perché la poesia dovrebbe servire? A chi e a cosa o chi e cosa? A quanti sostengono di non capire la poesia ho sempre replicato di provare almeno a sentirla. Solo questo vien chiesto. Perché la scrittura poetica è come un lampo: folgorante, luminosa, intensa, breve.
Eppure, la poesia è forse l’espressione massima della vita: concisa e diretta, come pure ambigua e secca. Come l’amore, persino: immediata e ricca, per quanto non sempre comprensibile, ma più accessibile di quanto si creda.
La poesia dilata il tempo. Io ne sono convinta. Oppure ce lo fa guadagnare o risparmiare. Insomma, per chi non ha tempo, leggere una poesia corrisponde a saziare un desiderio con la minore perdita temporale possibile. Allora, possiamo anche sostenere che la poesia dilata la vita. Ce ne dona un pezzettino quando ce ne occorre: se siamo tristi o vogliamo fare auguri speciali, quando l’amore ci ha sorriso o l’avvilimento esistenziale ci ha stritolato, nel momento in cui ci sentiamo più sospesi di una piuma o se siamo alla ricerca esasperata di risposte.
Sarà per questo che Borges parlava di ʽnostalgia del presenteʼ, per intendere quella sensazione (piuttosto diffusa, direi) di non riuscire ad afferrare e vivere il presente, avendo l’impressione che qualcosa stia già scomparendo nel momento stesso in cui si presenta.
In quel preciso momento l’uomo si disse:
che cosa non darei per la gioia
di stare al tuo fianco in Islanda
sotto il gran giorno immobile
e condividere l’adesso
come si condivide la musica
o il sapore di un frutto.
In quel preciso momento
l’uomo stava accanto a lei in Islanda.
La poesia è profezia, capacità di guardare avanti (e ʽoltreʼ le visioni comuni e scontate, i paesaggi consumati, la vita rosicata), ma anche – concedetemelo – di rileggere e rivedere il passato. È per questo che la scrittura poetica è spesso analogica, immaginifica o iconica. Ci parla attraverso immagini, per essere più immediata. Ci offre un esempio Alda Merini, di cui oggi ricorre l’85° anniversario della nascita.
Sono nata il ventuno a primavera
ma non sapevo che nascere folle,
aprire le zolle
potesse scatenar tempesta.
Così Proserpina lieve
vede piovere sulle erbe,
sui grossi frumenti gentili
e piange sempre la sera.
Forse è la sua preghiera.
(da “Vuoto d’amore”)
Durante gli studi universitari, rimasi folgorata dall’affermazione secondo cui ad essere in crisi non fosse la poesia; piuttosto, la crisi era nella poesia. Seguivo le lezioni su Pasolini. L’intellettuale di Casarsa, più che di nostalgia, parlava di rimpianto. Non tanto per la realtà in sé, quanto per il suo valore. Cioè ad essere in crisi era non tanto la società come entità così collettiva da non poterne dare forma, quanto l’identità umana. Nessuno si accorgeva della “scomparsa delle lucciole” ovvero della poesia. Era questa la tragedia: che non ci sono più esseri umani, ci sono strane macchine che sbattono l’una contro l’altra. E noi, gli intellettuali, prendiamo l’orario ferroviario dell’anno scorso, o di dieci anni prima e poi diciamo: ma strano, ma questi due treni non passano di lì, e come mai sono andati a fracassarsi in quel modo? (da Siamo tutti in pericolo, ultima intervista di Furio Colombo a Pasolini nel 1975). Ecco perché la poesia ci umanizza, ci ricorda chi siamo e per cosa stiamo al mondo.
Le sfumature sulla poesia e i suoi significati possono essere ancora molti. Concludo, però, con un tratto che in molti forse non considerano: la poesia è quotidianità. Sì, la si può trovare ovunque e tutti i giorni.
Lo dimostra la pubblicità della Mutti che per promuovere la salsa prende in prestito l’Ode al pomodoro di Neruda.
La strada
si riempì di pomodori,
mezzogiorno,
estate,
la luce
si divide
in due
metà
di un pomodoro,
scorre
per le strade
il succo.
In dicembre
senza pausa
il pomodoro,
invade
le cucine,
entra per i pranzi,
si siede
riposato
nelle credenze,
tra i bicchieri,
le matequilleras
la saliere azzurre.
Emana
una luce propria,
maestà benigna.
Dobbiamo, purtroppo,
assassinarlo:
affonda
il coltello
nella sua polpa vivente,
è una rossa
viscera,
un sole
fresco,
profondo,
inesauribile,
riempie le insalate
del Cile,
si sposa allegramente
con la chiara cipolla,
e per festeggiare
si lascia
cadere
l’olio,
figlio
essenziale dell’ulivo,
sui suoi emisferi socchiusi,
si aggiunge
il pepe
la sua fragranza,
il sale il suo magnetismo:
sono le nozze
del giorno
il prezzemolo
issa
la bandiera,
le patate
bollono vigorosamente,
l’arrosto
colpisce
con il suo aroma
la porta,
è ora!
andiamo!
e sopra
il tavolo, nel mezzo
dell’estate,
il pomodoro,
astro della terra,
stella
ricorrente
e feconda,
ci mostra
le sue circonvoluzioni,
i suoi canali,
l’insigne pienezza
e l’abbondanza
senza ossa,
senza corazza,
senza squame né spine,
ci offre
il dono
del suo colore focoso
e la totalità della sua freschezza.
Avevamo bisogno di uno spot per ricordarcelo? Forse sì. In ogni caso, viva la poesia!