Giunge a proposito il punto sulla situazione siriana e sull’esperienza vissuta dai 4 da parte di Amedeo Ricucci. Mi permetto solo di far notare che il problema di jihadisti e chiamata allo jihad non è nuovo. Ne parlai mesi fa in questo post recensendo ‘Taccuino siriano’ di Jonathan Littel. L’autore ci racconta dei primi appelli allo jihad lanciati da Homs nel Gennaio 2012. Ne scrissi, senza scoprire, come si suol dire, l’acqua calda anche in una radiografia dei combattenti siriani pubblicata sull’Espresso nell’agosto 2012. Un punto da chiarire: lo jihad in sè è un atto meritevole, non un fatto negativo o assimilabile tout court al terrore/terrorismo. Jihadisti erano e sono i libici di Mahdi al-Harati, in Siria proprio per aiutare i loro confratelli (qualche centinaio per eccesso e sotto il pieno controllo dell’Els)
Amedeo però ci da una conferma, tastata con mano, di un cambio di direzione da parte di una delle più importanti brigate indipendenti del paese, quella, appunto, di Jabhat al Nusra, confermata anche dall’annuncio di affiliazione ad al-Qaeda fatto dai loro confratelli iracheni, proprio quando i nostri erano nelle loro mani. Non più solo jihad quindi, ma anche un piano politico/religioso che è diverso da quello che vuole la stragrande maggioranza dei siriani.
Sulla questione andare o no in Siria, per quanto riguarda gli operatori dell’informazione, io sono per il sì. Ovviamente non avventurieri, improvvisati e cercatori di scoop o fuochi sacri. Come dire…testa sulle spalle e compenso ragguardevole. Altrimenti a casa. Se volete farvi una idea sulle difficoltà che si incontrano lavorando Siria, troverete una interessante valutazione fatta da Lorenzo Trombetta su Arab Media Report dal titolo ‘Siria e gionalismo: le difficoltà dei reporter dentro e fuori il confine’ con interviste ad Alberto Stabile, Alberto Zanconato, Alessio Romenzi e al sottoscritto. Qui sotto il pezzo di Amedeo Ricucci.
Qualche puntino sulle i
dal blog di Amedeo
A riflettori ormai spenti – con nostro grande sollievo, ve l’assicuro – è forse il caso di puntualizzare due o tre cose su quanto ci è successo in Siria. Perché i titoli strillati e i troppi copia&incolla hanno avuto l’effetto di distorcere alcune dichiarazioni che abbiamo fatto a caldo; e poi perché, come spesso accade in questi casi, c’è chi non ha perso l’occasione per strumentalizzare la nostra disavventura, in modo da avvalorare la propria “lettura” della guerra in corso. Provo allora a mettere qualche puntino sulle i:
1) Quanto è successo a me e ai colleghi Susan Dabbous,, Elio Colavolpe e Andrea Vignali, è già successo in tanti scenari di guerra e, purtroppo, succederà ancora. E’ infatti nell’ordine delle cose che in simili contesti dei giornalisti vengano scambiati per spie e che vengano trattenuti per ore oppure per giorni. Sono i rischi del mestiere, provate a chiederlo a chi ha subito la stessa sorte. Se abbiamo parlato di “fermo prolungato” e non di “sequestro” è solo perché la realtà dei fatti era questa: non c’è stata infatti alcuna rivendicazione da parte di Jabat al Nusra, il gruppo nelle cui mani siamo finito, e non c’è stata alcuna richiesta per la nostra liberazione: né politica né in denaro. Questo è quello che a noi risultava dalla Siria e questo è quanto mi sento di affermare adesso, dopo aver riesaminato la nostra vicenda con gli elementi di cui siamo venuti a conoscenza qui in Italia, al rientro.
2) Tranquilli, perciò: non siamo affetti da sindrome di Stoccolma. Se abbiamo detto che i nostri carcerieri non ci hanno torto un capello non è per render loro omaggio ma per ribadire una verità ben nota a chi di Jabat al Nusra ha un minimo di conoscenza che non sia folkloristica. Si tratta infatti di un gruppo che non ha certo bisogno di soldi, un gruppo di “puri & duri“, con un codice di comportamento paranoico ma ben chiaro. Non ci è stata fatta alcuna violenza fisica né minaccia, nemmeno verbale, credetemi, a parte il tentativo di intimidire Susan la sera prima del rilascio. Se il fermo si è perciò prolungato per 11 lunghissimi giorni temo sia dipeso da un lato dalle rigide procedure di sicurezza che caratterizzano questo gruppo jihadista, sia dalle inevitabili difficoltà di comunicazione all’interno della sua struttura militare, nella zona in cui siamo stati sequestrati.
3) Tutto a posto, quindi? No, niente affatto. La mia impressione è che la situazione in Siria, nelle zone sotto il controllo dei “ribelli”, sia ormai pericolosamente fuori controllo. Dico questo non tanto per la vicenda che ci ha visti coinvolti ma soprattutto perché essa combacia con l’impressione di tanti collegi ed operatori umanitari che, come noi, hanno provato ad andare in Siria negli ultimi mesi ed hanno avuto non pochi problemi. Tra i gruppi armati jihadisti e le brigate dell’Esercito Siriano Libero (ESL) è in atto infatti una guerra esplicita per il controllo del territorio, condotta con brutalità e senza rispetto per nessuno, tanto meno per i giornalisti. Il nostro sequestro temo si inserisca in questa battaglia senza esclusione di colpi, villaggio per villaggio, che non risparmia nemmeno la popolazione civile. Troppe sono le esazioni, troppi i soprusi e troppe le violazioni di ogni sorta. Col rischio di macchiare l’immagine che la rivoluzione siriana si è costruita con il martirio di tanti, che si sono ribellati alla dittatura di Bachar al Assad in nome della libertà e della democrazia. Per questo continuo a dire che In Siria, quanto meno nella zona dove siamo stati noi, non ci sono le condizioni minime di sicurezza per poter lavorare da giornalisti.
4) Come mi è stato ribadito apertamente e senza tanti giri di parole da tutti i membri del gruppo che ci privato per 11 giorni della nostra libertà, l’agenda politico-militare di Jabat al Nusra non ha nulla a che vedere con le aspirazioni alla libertà e alla democrazia per cui si batte da due anni il popolo siriano. A loro interessa solo l’instaurazione di un califfato islamico, nelle terre del Bilad as Sham, ed è per questo che sono accorsi in Siria, ormai a migliaia, non tanto per aiutare i “fratelli” siriani ma perché investiti di una missione divina, che hanno il dovere di perseguire ovunque si presenti l’occasione. Bachar al Assad è solo un ostacolo su questa strada: la vera battaglia per loro inizierà dopo e l’occupazione del territorio, nel nord della Siria già “liberato”, è solo la premessa per consolidare le loro posizioni.
5) Quanto appena detto costituisce un problema grosso come una casa e sbaglia chi ficca la testa nella sabbia, come gli struzzi, per non vederlo. So bene che i siriani si sono spesi molto per la nostra liberazione. L’ha fatto la comunità italo-siriana, l’ha fatto l’ESL, l’hanno fatta i tanti amici della Siria che denunciano da due anni la tragedia infinita che si consuma nell’indifferenza del mondo. Sta però a loro affrontare questo problema, senza tanti opportunism, che non giovano alla causa. E’ vero che Jabat al Nusra rappresenta in questa fase un alleato prezioso, visto che nessuno aiuta il popolo siriano. Ma è vero che a mettersi in casa un ladro non ci si può poi lamentare se prima o poi spariscono i gioielli di famiglia