Sparecchia il tavolo a McDonald, monta il mobile Ikea, riempi il tuo serbatoio di benzina, masterizza il tuo CD… Cui prodest?Tuo padre entrava in garage, prendeva la macchina e si fermava al distibutore dove il benzinaio, oltre a fare il pieno, puliva anche i vetri. Poi si dirigeva verso l’autostrada e riceveva resto e biglietto dal casellante. Arrivava al negozio di arredamento, sceglieva il mobile per il suo hi-fi, che qualche giorno dopo veniva consegnato a domicilio e montato. Per festeggiare, toglieva il suo vinile preferito dalla copertina patinata e lo appoggiava delicatamente sul piatto.
Arrivi finalmente al sovraffollato parcheggio dell’IKEA, ti serve solo una sedia, ma devi farti una mezzoretta di camminata tra stanze fittizie. Hai matita e foglio, scrivi il codice, consulti il terminale a disposizione e al termine del lungo tragitto arrivi al magazzino, dove scarichi dallo scaffale in alto una scatola relativamente piccola, ma incredibilmente pesante. Paghi
alle casse self-service, carichi in macchina, arrivi sotto casa ma non puoi parcheggiare, giri 20 minuti, ne cammini altri 15 per raggiungere il focolare dal luogo del parcheggio. Porti di sopra il tuo mobile IKEA (se sei fortunato hai l’ascensore), apri il pacco, studi le istruzioni a prova di idioti, monti il mobile e scopri che non erano a prova di tutti gli idioti. Sudi sette camicie, ma alla fine la sedia è montata. Sei molto soddisfatto. Per festeggiare accendi il PC, aspetti 3-4 minuti perchè sia pronto, ti colleghi via internet e ti ascolti il tuo album preferito in streaming, con qualche pubblicità in mezzo, ma del tutto gratuito.Esulta! Non solo hai fatto molta più salutare attività fisica, ma hai speso molto meno di tuo padre! Oppure no? Ma chi ci guadagna da tutte queste fatiche? La mia “utilità” di consumatore è più alta di quella di mio padre? Oppure sto creando disoccupazione?
Il tema è interessante, e sarebbe ipocrita dire che le scienze economiche (e soprattutto quelle aziendali) abbiano sviscerato le conseguenze di quella che si chiama in gergo tecnico la co-creazione del valore. E pensare che Marx ci aveva già pensato più di un secolo fa a distinguere tra “valore di scambio” e “valore d’uso”, ma nell’era moderna le cose si sono indubbiamente complicate. Ora, non ho la pretesa di avere gli strumenti per rispondere a tutte le domande, ma visto che siamo sull’Undici ci provo lo stesso. E il percorso è interessante…
La catena del valore. Fino a non troppo tempo fa, nel mondo economico tradizionale, era il produttore ad aggiungere valore al prodotto. Prendeva la materia prima, la lavorava, aggiungeva qualche servizio e la vendeva al consumatore. Una sedia, un mobile, un panino, un pieno di benzina, un 33 giri. Da parte sua, il consumatore prendeva il proprio portafoglio, ne confrontava il contenuto con le richieste del produttore/venditore (alla fine della catena del valore c’è il negoziante) e decideva se il gioco valeva la candela, nel qual caso si trovava un portafoglio più leggero, ma aveva in mano qualcosa di relativamente tangibile.
La co-creazione. Oggi invece il consumatore è un mezzo creatore, ovvero un co-creatore. Così come le compagnie aeree dicono alla Boeing come vogliono i propri aeroplani, adesso abbiamo consumatori che lavorano per il prodotto. Sono designer, camerieri, falegnami, produttori discografici. Sono i consumatori a determinare il valore finale del prodotto. E qui nasce la prima sfida. Vale di più il White Album dei Beatles o la vostra personalissima compilation creata attingendo dall’intera discografia mp3 dei quattro di Liverpool? Prendete un bambino e dategli una scatola di mattoncini lego. Può fare 10 giocattoli diversi, avranno tutti lo stesso valore per lui?
Chi paga e chi guadagna? La faccenda si complica quando cerchiamo di quantificare questa co-creazione di valore. Il prodotto fai-da-te è davvero più economico di quello tradizionalmente confezionato? E se sgombero il mio tavolo di McDonald risparmio soldi sull’hamburger? Sono certo che la mia risposta a cotanto quesito sarebbe quella dei più grandi premi Nobel per l’economia. La risposta in questione è: dipende.
De que depende. Cominciamo con una parabola, o meglio un vero esperimento scientifico, condotto da qualche prestigiosa università americana, forse Harvard o Princeton. Bene, siamo in un grande magazzino di New York e su due scaffali ci sono due pile di asciugamani che sembrano identici in tutto e per tutto. Anzi, a dirla tutta SONO perfettamente identici. I maliziosi ricercatori, però hanno messo un grosso cartello sopra la pila destra: “Questi asciugamani sono amici dell’ambiente e sono equo-solidali”.
Se li compri ti senti meglio, hai fatto qualcosa per l’ambiente e per le povere popolazioni sfruttate. E ovviamente costano un po’ di più, perchè generalmente le produzioni eco-compatibili ed equo-solidali hanno costi maggiori. Fin qui tutto normale. La sorpresa viene dai dati delle vendite. Di settimana in settimana i maliziosi ricercatori variano il prezzo degli asciugamani etici. Ebbene, più il prezzo è alto, più si vendono e più si guadagna. Perchè? Perchè l’acquirente vede nella propria buona azione un valore economico maggiore, ricavando proprio buon cuore maggiore soddisfazione. E paga per questo… anche se il costo dell’asciugamano è in realtà identico a quello convenzionale. Morale della favola, se comprando Ikea ti senti cool e amico dell’ambiente, se mangi biologico e compri caffè fair-trade, nel tuo prezzo, oltre ai costi (che possono essere più bassi per Ikea, più alti per il caffè fair-trade) c’è un valore intangibile che tu paghi al produttore, che può fare profitto sui tuoi senstimenti.
Torniamo al self-service. Ma allora ci fregano? Dipende. Partiamo da quella che in letteratura è chiamata la macdonaldizzazione dell’economia. In un interessante articolo, due economisti tedeschi (Rieder e Voss) si chiedono quanto costi il lavoro per sgomberare un tavolo al fast-food. Poniamo 10 centesimi di euro. Nel 2008 i clienti del McDonald erano 58 milioni al giorno. Ogni giorno McDonald ha risparmiato quasi 6 milioni di euro grazie all’autosgombero dei tavoli. Più o meno 2 miliardi di euro all’anno. Ma per soli 10 centesimi di euro, non vorreste piuttosto che fosse qualcun altro a pulire i vostri avanzi? Anzi, considerando che create lavoro in un’era di disoccupazione, la vostra coscienza radical chic potrebbe spingervi anche a voler pagare 20 o 30 centesimi in più. E se invece vogliamo ikeizzarci, ci raccontano Rieder e Voss che nel 2003 lo scaffale Billy ha compiuto trent’anni. Trenta milioni di esemplari venduti. Assumendo mezz’ora di assemblaggio per ogni Billy, e un “salario” di appena 5 euro per ora, stiamo già parlando di 75 milioni di euro “prodotti” dai clienti IKEA solo per Billy. Ma per 2.5 euro di differenza, non sarebbe meglio averlo già montato?
Costi e prezzi. In realtà, i 10 centesimi e i 2.5 euro sono solo una stima dei costi risparmiati da McDonald e IKEA, ma rispetto al valore d’uso siamo noi a fare quotidianamente il confronto tra il McSparecchia e il ristorante servito, o tra Billy e lo scaffale del mobilificio a tiro. E, stando alla teoria economica, se continuiamo a scegliere il McDonald e Billy, vuol dire che a noi conviene. Altrimenti, sul mercato c’è spazio per un fast-food del tipo McDonald che costa 10 centesimi in più e non ci chiede di sgomberare il tavolo, oppure un nuovo IKEA che produce Billy-equivalenti e già montati a soli 2.5 euro in più. Questi posti non ci sono, e IKEA e McDonald proliferano, anche facendoci lavorare. Come fanno?
Il mercato. La tentazione è sempre quella di dire “E’ il mercato, bellezza“, per cui va tutto bene
così. Evidentemente, la differenza di prezzo tra il self-service co-creativo e il “tutto servito” è sufficiente per farci scegliere il primo. Il giorno in cui ci stancheremo di sparecchiare vorrà dire che la differenza di prezzo non è più sufficiente a “compensare” per la nostra fatica, andremo al ristorante di fronte e pagheremo la differenza di prezzo. Questo valore, quello che ci fa passare dal self-service al tutto servito e viceverse, è chiamato dagli economisti disponibilità ad accettare (una compensazione), è specifico per ognuno di noi e può variare per mille ragioni. Se abbiamo fretta, se abbiamo pochi soldi in tasca, ci basterà una piccola compensazione in termini di riduzione di prezzo per scegliere il McDonald. Se invece viaggiamo in Ferrari o con l’autista, difficilmente ci faremo convincere a sparecchiare al McDonald o montare i mobili Ikea, anche se il prezzo fosse la metà.Concentriamoci. Però la storiella potrebbe non essere così semplice. IKEA e McDonald sono dei “brand”, come la Coca-Cola. Il loro valore economico è più nel marchio che non nel capitale tangibile di cui dispongono. Grazie a questo, hanno ampi margini per difendersi da potenziali nuovi concorrenti. Per guadagnare di più preferiscono abbassare i costi ed ingrandirsi, piuttosto che migliorare i servizi. E anche abbassando i costi, se non hanno concorrenti dignitosi all’orizzonte, possono permettersi di mantenere gli stessi prezzi. Chi ha frequentato le aule di un corso di microeconomia li potrebbe chiamare oligopoli o monopoli.
Starbucks in Italia non c’è. Se invece la scelta fosse tra lo Starbucks in cui devi far tutto da solo e il bar dell’angolo in cui ti servono al tavolo (nel campo del caffè i concorrenti non mancano e il branding è meno rilevane) allora chi vince? In Italia Starbucks non c’è, e pare non abbia intenzione di venirci. Impossibile competere con i prezzi di espressi e cappuccini dei bar di casa nostra. Arriverà mai? Se Starbucks diventasse uno status symbol, magari per i teenager, allora questi assegnerebbero un “valore” superiore al suo caffè, rispetto a quello consumato al bar e a quel punto, potrebbero essere disposti a sudare e lavorare per consumarlo.