Barrajas, tardo pomeriggio. Sono accasciata, febbricitante e con il naso che cola, su una seggiola davanti al gate, in attesa dell’imbarco sul volo di rientro in Italia. Alle quattro di mattina di lunedi, quando mi sono svegliata per prepararmi una mezz’ora prima che il taxi passasse a prendermi, ho capito immediatamente, dal mal di gola fortissimo, che stava arrivando il raffreddore.
E’ arrivato, conclamato, potentissimo. Avessi seminato dietro di me i fazzolettini di carta che ho consumato negli ultimi tre giorni, avrei potuto ritrovare da Madrid la strada di casa, tanti sono stati.
Sono stati tre giorni impegnativi: il progetto si avvicina alla scadenza, le cose da fare sono ancora molte, analizzare file e fare formazione alle persone con una mano occupata a presidiare il naso e la testa che ronza non e’ esperienza gradevole.
Sento che la febbre che sale, mentre conto le ore all’arrivo a casa, sogno il piumino del mio letto.
Accanto a me e’ seduta una ragazza dall’aria sportiva, in tuta e con le solite tre o quattro borse che caratterizzano certi esemplari di femmine viaggianti e che occupano un’altra poltroncina. Mi soffio il naso quattro o cinque volte, ingollo quel che e’ rimasto del flaconcino di propoli, succhio caramelle alle erbe e la sento starnutire, tre volte. Osmosi. Vedo che si alza, si fa un giro, poi ritorna e mi guarda, preoccupata.
Arrivano i colleghi dal giro di perlustrazione aeroportuale. Le sedie sono tutte occupate e manca ancora una mezz’ora alla partenza. “Certo che sei proprio conciata male!” – mi dice una di loro.” Hai una brutta cera. Secondo me hai anche la febbre.”
” Mi sa anche a me” mugolo io con l’italiano che va a ramengo e lascia il posto al mio solito gergo colloquiale.
” Non venire in ufficio domani. Guarda come sei conciata” , proseguono loro.
La ragazza sembra non prestarci attenzione. Non so nemmeno se e’ italiana o spagnola e cosa possa capire. Molto, direi, visto che pochi secondi dopo raccoglie la sua zavorra e si sposta piu’ in la’, in piedi, dalla parte opposta del cancello di imbarco.
“Ecco fatto” dice la collega, accomodandosi accanto a me sulla poltrona rimasta vuota. ” Sapevo che sarebbero bastate poche parole per liberare due sedie!”.
Cambio l’ennesimo fazzoletto, ripiombo nel mio torpore confuso, non ho la forza di interrogarmi sulla psicologia dei comportamenti umani. Torno a pensare al mio letto, tanto di contagiati probabili, in questi ultimi giorni, ne ho accumulati molti sulla coscienza.