Ieri era un ascensore, oggi un maialino di pura razza piemontese. Cambia il pretesto dell’incontro/scontro fra culture ma non l’occhio da reporter di Amara Lakhous; ancora una volta lo scrittore migrante più famoso d’Italia indaga in chiave comica la complessità delle dinamiche di integrazione straniera nel “nostro” Paese.
Giunto al suo quarto romanzo l’autore algerino, cantore della multiculturalità, cambia location: dalla Roma multietnica di piazza Vittorio e viale Marconi, dove ha ambientato i due romanzi precedenti, Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio (Isotta Toso ne ha tratto un cupo film) e Divorzio all’islamica a viale Marconi, si sposta nel quartiere torinese di San Salvario. «Vivo a San Salvario da due anni – precisa – Scrivo sempre di posti che conosco bene».
Incastonato fra la stazione centrale di Porta Nuova e il Po, in anni recenti San Salvario è diventato il cuore della movida torinese. Dehors per aperitivi, street food etnici e locande a km 0 racchiusi in un quartiere in cui il 30% dei residenti è straniero: sono quasi cento le nazionalità presenti a convivere fra chiese, templi valdesi, moschee, sinagoghe e dismesse sedi della Lega Nord.
Il protagonista di questa ricerca antropologica sul campo, travestita da commedia all’italiana tinta di giallo, è Enzo Laganà, cronista di nera per l’edizione locale di un giornale nazionale. Un mondo che Lakhous conosce bene, avendo fatto il giornalista per diversi anni, prima in Algeria e poi a Roma. Laganà è circondato da caricature, talvolta fin troppo abbozzate: l’ansiosa mamma calabrese, il caporedattore pavone, la vicina ficcanaso, le mosche da bar, gli animalisti invasati e i leghisti dalla memoria corta (alla fine dell’Ottocento, per fuggire alle pestilenze, migliaia di italiani del Nordest emigrarono in Romania, dove fecero i muratori).
Un pot-pourri di umanità che fa da sfondo alla doppia trama di Contesa per un maialino italianissimo a San Salvario. Da un lato le false piste inventate da Laganà sulla faida fra rumeni e albanesi che agita Torino, condite da fittizie gole profonde, a rimarcare il sensazionalismo dei media e la manipolazione delle notizie. Dall’altro, il comico siparietto del maialino domestico, con tanto di sciarpa della Juve, che ha violato la sacralità della moschea del quartiere, diventando una sorta di rifugiato politico. Ma Gino, così il padrone nigeriano ha battezzato il suo porcellino, è anche lo specchio riflesso degli immigrati di ieri, gli stessi meridionali che a Torino trovarono i famosi cartelli «non si affitta ai meridionali», o ai quali veniva chiesto se coltivassero il basilico nella vasca da bagno, e dei migranti di oggi.
Il sospetto si infila anche fra etnie diverse, ciascuna arroccata sui suoi pregiudizi e barricata nelle proprie insicurezze. Lakhous non si lascia sfuggire l’occasione, visto il tema, di fare un tributo a Izzo e alla sua Marsiglia delle seconde generazioni di immigrati italiani, di cui fa parte il suo Fabio Montale. Contesa si apre con Laganà che spalanca la finestra sulla veduta del Vieux-Port.
I suoi quasi diciotto anni passati in Italia, sedici dei quali a Roma (ecco spiegata la cadenza di Lakhous), hanno lasciato tracce di una profonda conoscenza della vita sociale e culturale di questo Paese: le battute di Alberto Sordi, i versi di Rino Gaetano, le gesta del commissario de La Piovra, il caotico Processo di Biscardi. La leggerezza dello sguardo si rifà alla scuola della commedia all’italiana, in primis a Pietro Germi, di cui Lakhous ha rivisitato Matrimonio all’italiana nel titolo del suo secondo romanzo.
E poi il calcio, fenomeno senza il quale non si può spiegare l’Italia. Lakhous ne fa addirittura una metafora per far luce sulle dinamiche di integrazione. La formula del "catenaccio" alla Trapattoni, ad esempio, il giocare sempre sulla difensiva nonostante la presenza di abili punte. «Il rifiuto di dare la cittadinanza italiana ai figli di immigrati nati in Italia è una proiezione del modello "catenaccio"», dichiara Lakhous.
In quanto esperto di tematiche di integrazione – oltre a due lauree ha anche un dottorato di ricerca sui musulmani arabi in Italia – ne ha discusso recentemente anche con Laura Boldrini in un incontro a Montecitorio. Integrazione per Lakhous non significa «accettare tutto»; come dice Laganà: «[quella] è assimilazione, colonialismo».
Contesa è stato scritto la prima volta in arabo e poi tradotto, anzi “riscritto”, in italiano, lingua che l’autore parla alla perfezione, in aggiunta all’arabo, al francese e al berbero materno.
A detta sua ha una tendenza ad «arabizzare l’italiano e italianizzare l’arabo», traendone uno stile unico e godibile. Per questa sua contaminazione linguistica è stato paragonato a un Tahar Ben Jelloun de noantri; il romanesco è voluto perché l’attenzione al volgo dialettale è un must per Amara Lakhous: «I miei maestri sono stati Gadda, Sciascia e Pasolini, i quali hanno sempre dato importanza alle sfumature dialettali e ai detti popolari». Da Gadda ha ereditato anche la passione per i finali aperti, in stile Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, seppur a tratti Lakhous paia eccessivamente precipitoso.
Enzo Laganà è destinato a non esaurirsi in un paio d’ore di piacevole lettura di Contesa: il cronista «terrone di seconda generazione» potrebbe diventare un personaggio seriale. E la prossima puntata uscirà a breve. L’approccio sarà quello umoristico e ironico di sempre. Del resto, è Lakhous stesso a citare il proverbio calabrese: chine nàscia rutunnu non mora quadratu.
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