da wikipedia
Eravamo ragazzi, con gli occhi un poco più foderati di pelle di prosciutto di quelli di oggi ovviamente; in più venivamo dalla provincia e già di per sé, un poco la grande città ci intimidiva. Certo, avevamo partecipato a qualche corteo liceale, gridando qualche slogan tipo Giù le mani da Cuba o Yankee go home, mentre la guerra del Vietnam si incancreniva, ma per la verità non sapevamo nemmeno bene dove fossero quei posti e quando all'Università tra 68 e 71 cominciavano a spirare venti un po' più forti, guardavamo a tutto quel movimento con una certa perplessità. Forse noi ad agraria, eravamo un po' troppo periferici rispetto alle altre, l'ultima delle facoltà in fondo al Valentino, dopo Medicina e decisamente lontana dai clamori di Palazzo Nuovo, il cuore della contestazione; però anche lì tutti quegli eskimo che giravano , gli slogan, le scritte sui muri, cominciavano a muovere le acque. Ma, nonostante la nostra poca dimestichezza con quel mondo che appariva certamente più motivato ed informato, rimanevamo piuttosto dubbiosi e poco inclini ad una partecipazione attiva. Forse sarà dipeso dall'essere dei provincialotti, ma nelle assemblee, fatte di grida e di vuote parole, per la verità esattamente le stesse nei toni e nella sostanza di quelle che senti adesso nelle nuove assemblee, virtuali stavolta, di grillini e non solo, riuscivi subito a capire che c'era sì tanta buona volontà giovanile, ansia di cambiamento, ma anche tanto vuoto di idee e di concretezza. Allora, come adesso era così talmente facile gridare basta, tutti a mare, cancelliamo tutto per ricominciare, vietato vietare e adesso tocca a noi, però le proposte di costruzione erano debolissime, impraticabili, costituite da sogni velleitari e utopistici.
Si ammirava Mao e molti ingenuamente credevano davvero che il popolo potesse costruire ponti senza ingegneri come a Nankino, comuni che producessero latte e miele, civiltà possibili senza denaro, come predicava Pol Pot immediatamente dopo. Per lo meno molti, come ora, ci credevano. Poi a poco a poco, proprio quelli che capeggiavano quelle assemblee roventi, dove democraticamente parlavano solo quelli che si attenevano alla linea guida, presero il potere a cui agognavano rottamando gli anziani, i più, però a poco a poco cambiarono linea e furono in seguito gli artefici del disastro che ci ha trascinato fino ad oggi. Adesso la storia si ripete, stessi slogan, stesso sdegno, stessa furia, potenzialmente devastatrice. Ma che sacrifici, prendiamoci quello che è nostro, spacchiamo tutto il resto e mandiamoli a casa. Ad agraria, come ho detto le cose erano più calme. Mentre da Palazzo Nuovo partivano cortei armati per scontrarsi coi Katanghesi e le facoltà venivano occupate, soprattutto di notte, momento in cui si puntava soprattutto sui problemi attinenti alla liberazione sessuale (quanti i figli delle occupazioni!), da noi si discuteva con una certa pacatezza e gli eskimo barbuti si contavano sulle dita di una mano. Chi sa che fine avrà fatto un certo Surace, uno dei capipopolo tra i più esagitati? Per la verità fu occupato per qualche ora anche l'istituto di entomologia e il preside ricevette la delegazione degli studenti inferociti che chiedevano riforme e libertà. Così anche noi avemmo la nostra medaglia, il nostro successo. Ci fu concessa l'istallazione di una macchinetta del caffé nell'atrio delle scale, da posizionare proprio dove, il primo giorno di frequenza, due anni prima, avevo incontrato quella che sarebbe diventata mia moglie.
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