Prosegua in questa sede il dibattito iniziato sulle pagine del blog “antispecista” (virgolette d’obbligo, non sarà mai del tutto chiaro di cosa tratti in sostanza) “Asinus Novus”, proseguito su quelle di Pro-Test Italia e che, come promesso, continuerò al massimo sul mio blog personale. In seguito alla mia ultima risposta, l’autrice si sente costretta ad aggiungere ulteriori precisazioni (chi vuole seguire tutto il dibattito proceda a ritroso di link in link, non sarà difficile). Io più che altro lo faccio perché ne ho voglia e perché ho la serata libera, ma tutte le motivazioni son buone.
che si scegliesse di risponderci come associazione, evidentemente, non ci è sembrata una quisquilia.
We’re so flattered. Penso di poter parlare a nome di tutta l’associazione J
L’ansia definitoria ha qui una sua ragione ben precisa: la disinvoltura con cui i media nazionali hanno impiegato la parola “terrorismo” per qualificare un illecito che non ha previsto l’uso della violenza né delle armi non può non far pensare alla situazione americana, dove la nozione di terrorismo è stata estesa all’inverosimile per colpire non solo i (quasi sempre) presunti terroristi islamici, ma anche chi semplicemente si oppone all’industria dello sfruttamento animale
Molto bene. Ammetto l’errore, mi era sembrato di cogliere invece in quell’ansia un intento di solidarietà nei confronti dei vandali di Milano. Per fortuna non era questa l’idea.
L’afflato morale che l’autore percepisce per tutta la durata dell’articolo non può essere confuso (ma qui lo è di gran lunga, e in seguito lo sarà ancora di più) con l’attribuzione in sede di etica formale di un “valore inerente” agli animali non umani o a un qualsiasi altro ente di natura. Il moto esistenziale di rivolta verso le violenze inflitte agli animali che scava dal di sotto la nostra scrittura non ha nulla a che fare con gli argomenti che un Singer o un Regan possono esibire a sostegno delle proprie tesi: è desiderio, passione, sangue che ribolle … afflato, per l’appunto.
Difficilmente troverà un filosofo che si definisca antispecista a parte quelli che già conosce, più che altro, se continuerà a evitare accuratamente di leggerli. Si sono citati Singer e Regan perché è lampante, come confermato da lui stesso peraltro, che all’autore interessi unicamente un discorso di tipo etico o metaetico, quasi completamente abbandonato dalla riflessione antispecista contemporanea, che qui si vuole continuare a ignorare (si veda lo sprezzante rifiuto di consultare la bibliografia suggerita, nella quale i nomi di Singer e Regan nemmeno compaiono).
Infatti mi si attribuirà continuamente un riferimento a Singer e Regan, che neppure ho mai nominato in alcuno dei miei articoli del presente dibattito. Tuttavia è pur vero che il mio discorso è etico e metaetico, trattandosi appunto di un discorso filosofico. Considero il linguaggio delle emozioni affine all’arte più che alla filosofia. Malgrado una tendenza forte della filosofia continentale sia quella di allontanarsi dal sentiero delle valutazioni razionali e rigorose, per inoltrarsi su quello delle tinte forti e della poesia, io mantengo la nozione della filosofia come fatto separato dalla mera comunicazione di emozioni.
Non citerò una per una le ulteriori accuse, o meglio difese, rivoltemi su questo filone, perché sostanzialmente si muovono sul terreno di una ben determinata linea di difesa, che riassumo così: “io sento pietà per gli animali, e non ho altri argomenti; dunque la tua accusa di avere argomenti deboli è falsa, io argomenti non ne ho proprio”.
Questa ammissione ha forte onestà, indubbiamente. Come se io rispondessi, alla domanda “perché non sei animalista?”: “perché amo la salsiccia”. Sì, sarebbe una risposta molto onesta, in effetti; la ragione per cui non sono animalista è che amo i miei PGS (quasi tutti) più di quanto ami gli animali, e non credo in alcun “fatto morale naturale” che mi spinga in altre direzioni. Il mio punto filosofico dunque è più che altro che non c’è un punto filosofico nell’animalismo e nell’antispecismo. Serena me lo conferma; mi conferma che c’è un sentire emotivo che vuole scendere nell’arena politica, ma non un argomento filosoficamente valido.
Ciò che ne discende è che questa non è una discussione filosofica, è che chi propone questo non-argomento non sta proponendo un punto filosofico. Donde viene dunque l’accusa di non aver capito tutti i “filosofi antispecisti”? I filosofi antispecisti porteranno punti filosofici sull’antispecismo, e dunque su una dottrina fondamentalmente identica a quella che criticavo nei precedenti commenti. Non considero l’etica una questione filosofica, considero solo la meta-etica una questione filosofica, l’etica è una disciplina pratica. L’unica opposizione filosofica che posso tenere in conto per me è in realtà il realismo morale, non per nulla ritorna di frequente in forma aperta o mascherata negli argomenti degli antispecisti (anche di molti di quelli che formalmente se lo negano). Dunque non si stupiscano su AN se io sono nettamente persuaso della debolezza intrinseca delle posizioni cosiddette antispeciste, perché hanno le debolezze del realismo morale. Se un antispecista non è realista morale, argomenti filosofici non ne ha. Potrebbe avere argomenti politici, argomenti pratici, argomenti compassionevoli, magari un grosso pasticcio di tutto insieme … ma in questa sede tutto ciò non mi interessa, come non mi interessa discutere di calcio o di cubismo, è un argomento che non attiene a ciò di cui parlo io.
Ho sempre considerato l’antispecismo come una dottrina filosofica. Grandemente lacunosa, impostata su un forte antropocentrismo e sul realismo morale… ma una teoria filosofica, e anche una abbastanza rivoluzionaria, così rivoluzionaria in effetti da diventare fuori dal mondo, contronatura nel senso stretto del termine di impossibile da realizzare fuori da un libro di fantascienza.
Non l’ho mai collegata ad un programma politico, perché se c’è una cosa che manca ontologicamente agli animali è la capacità di azione politica; l’uomo è l’animale politico, l’unico, e dire che l’etica è questione politica o convenzione umana taglia fuori qualsiasi argomento a priori, filosofico, in favore della caduta della distinzione di specie. Restano in piedi argomenti a posteriori, singolari, localizzati, mancanti di respiro: cani e gatti non si mangiano perché la gente (non tutta) la vede in questo modo. Ma vedo difficile presentare una cosa del genere come una prospettiva filosofica, è semplicemente che fanno tenerezza alla gente. Non si costruiscono programmi filosofici sul fatto che qualcosa fa tenerezza, questo è navigare a vista.
Invece di parlare di antispecismo, forse dovremmo parlare di “amanti degli animali allo sbaraglio”. Chissà, forse li prenderei più sul serio, io. Molti altri… credo di no, no. Meglio continuare con il “programma filosofico”.
Tutte le filosofie antispeciste? Le due che conosce, magari. Diversi filosofi antispecisti inorridirebbero davanti alla stessa dicitura “fatti morali”.
L’opinione di chi scrive, per quanto poco rilevante, è che lo sfruttamento e l’uccisione degli animali non umani non siano ingiusti in sé, da sempre, per qualità intrinseca: si tratta piuttosto di vedere se a questo punto della storia umana l’empatia che generalmente sentiamo nei loro confronti possa diventare una questione politica, possa condurre a un ripensamento della nostra società.
Non a caso Derrida (è in bibliografia…), che influenza gran parte dei teorici antispecisti degli ultimi anni, parlava di guerra sulla pietà (“una guerra in corso e la cui inuguaglianza potrebbe un giorno capovolgersi, tra coloro che non solo violano la vita animale, ma perfino il sentimento della compassione da una parte e quelli che si affidano alla testimonianza irrecusabile di questa pietà dall’altra”): sarà essa, se mai, a ridefinire sul campo le categorie dell’etica.
Quando non riesco a decifrare fino in fondo il pensiero del mio interlocutore (il che generalmente, dico senza modestia, non è mia colpa), uso un trucco onesto e sempre funzionante: deduco da ciò che dice quali possono essere tutte le posizioni con esso compatibili e le analizzo una per una. In qualche modo avrò beccato anche quella giusta.
Avevo analizzato anche la possibilità che l’autrice non credesse davvero una necessità morale di ridefinizione filosofica ed etica della distinzione uomo animale. Ciò che adesso Serena scrive riguardo al proprio “antispecismo” rientra infatti nella filosofia dell’Animal Welfare, e non degli Animal Rights. Si chiama ancora antispecismo una filosofia che sostiene un indeterminato agire compassionevole verso gli animali unilateralmente da parte umana, da verificare in singoli casi e con interventi mirati di volta in volta? Perché questo è tutto ciò che possiamo ricavare dal “moto di compassione”: un’iniziativa unilaterale antropica, fortemente legata ai casi specifici, in favore del benessere animale.
Questa iniziativa, poiché legata esclusivamente ad un sanguigno desiderio del cuore, non può avere una progettualità definita e resa universale, non ha neanche dei netti confini definitori. Se così fosse, se questo fosse l’antispecismo, ciò farebbe di me un antispecista. Un antispecista moderato e abbastanza antipatico, ma indubbiamente antispecista, in quanto interessato caso per caso al benessere animale. Forse è dunque vero che anche un mio articolo può essere pubblicato su Asinus Novus in quanto fonte antispecista?
Peraltro, tutto ciò non è esattamente quello che ho colto dalla lettura di vari articoli di uno degli autori in bibliografia su cui, nonostante sia stata appena dichiarata dall’autrice sostanzialmente priva di argomenti filosofici, non ho scorreggiato sopra, al punto da scriverci sopra un pezzo piuttosto articolato.
Ah, non vediamo particolari problemi nel riconoscere nell’essere umano la fonte di ogni giudizio valoriale. Possono benissimo esistere valori istituiti dagli esseri umani ma non centrati sugli esseri umani.
Non più di quanto possa esistere un’arte o una tecnologia fatte da umani in cui gli umani vengano a dire “non è incentrata su di me!”
Se l’hanno fatta gli umani, è incentrata sugli umani, sulle loro visioni, sui loro obbiettivi. Qui ritorna la famosa illusione dell’ottica decentrata …
I privilegi grondanti sangue (senza di: sta meglio) di alcuni umani sono ad esempio quelli derivanti dalla sperimentazione animale, che i due Asini dichiaratamente non considerano pratica inutile o antiscientifica. Dalla SA non vengono forse benefici: privilegi? E non grondano il sangue delle cavie ghigliottinate? Se non gradisce l’espressione “grandguignolesca”, si unisca alla battaglia contro la sperimentazione.
I PGS sono di TUTTI gli umani e di TUTTI gli animali. Durante tutto l’articolo l’autrice non farà che ricordare che lei in questi diritti naturali non ci crede, che ho frainteso. Allora lo dimostri cominciando a ricordarsi che anche vivere un solo giorno di vita non è un diritto naturale, ma un privilegio guadagnato col sangue: quello di cui ci si è nutriti, oppure quello che si è sparso indirettamente.
Il primo problema della prospettiva “filosofica” calorosa e sanguigna dell’autrice è che non lascia spazio a definizioni non dico universali, ma neanche generali. Non può distinguere il PGS da far cadere da quello da mantenere, se non sulla base del suo proprio sentire, perché sono tutti P, e sono tutti GS.
Quanto al mio fastidio per l’uso dell’espressione “grondante sangue”, non colgo l’attinenza con l’opporsi o non opporsi alla sperimentazione animale. Se non gradisco l’espressione è perché non sono un’amante di usi linguistici così barocchi che caricano di significati superflui il discorso. Animali muoiono anche per via dei vegani, ma non ho mai letto vegani considerare il proprio sformato di cavolfiore “un privilegio grondante (di) sangue”.
Fino a poco tempo fa gli animali erano sottratti ai laboratori da quattro attivisti dell’Alf col viso coperto dal passamontagna, ora semplici cittadini manifestano fuori dai luoghi di sfruttamento, e perfetti chiunque (del tutto ignari dell’esistenza di un movimento antispecista, come gli scalmanati che hanno sfondato i cancelli di Green Hill) entrano di peso a prelevare le future cavie.
E questa non sarebbe una questione politica? Se non stiamo parlando di morale oggettiva, come non stiamo parlando di morale oggettiva, va da sé che la comunità potrà decidere di abolire anche gradualmente specifiche forme di sfruttamento, senza sentirsi in dovere di “annullare gli ospedali”.
Naturale, tutto è possibile. Non dietro tutto ciò che si fa c’è una ragione sensata. Uno studio recente sembra indicare che i vegani causino indirettamente la morte di più animali degli onnivori … Che sia vero o meno, è comunque un esempio che ci ricorda il fatto certo e indubitabile, e cioè che il mondo umano è sufficientemente complesso e interconnesso, e la natura fuori da esso sufficientemente crudele, da garantire che il numero di animali che muore di morte atroce rimanga nella sua inevitabile enormità sempre sostanzialmente immutato, quand’anche l’uomo dovesse sparire dalla faccia della terra. È indubitabile che, dopo aver rifiutato come abbiamo rifiutato gli argomenti di un Singer o un Regan, manchi del tutto una base razionale per parlare ancora di antispecismo.
Non può dunque che sfuggire il senso di un movimento che dichiara di volersi muovere senza alcuna direttiva razionale, senza una vera programmaticità, senza un punto filosofico dietro, ma solo sulla base di un imprecisato istinto di compassione. Ovviamente la dichiarazione di voler semplicemente agire sulla base delle proprie emozioni senza alcun vaglio razionale delle motivazioni, degli obbiettivi e delle possibilità, pone pericoli, soprattutto in ambito politico.
Si direbbe che Serena abbia deciso di far sua tutta la mia decostruzione dell’etica in politica (e di farlo seriamente, più di quanto ad esempio non abbia fatto Maurizi che invece faceva rientrare l’etica dalla porta di servizio). Non ha preso minimamente sul serio però la parte in cui invece mi davo alla ricostruzione, e dunque al tentativo di rendere possibile un dialogo sulla costruzione delle norme, per non abbandonare il tutto all’anarchia delle sensibilità individuali o di gruppo in conflitto le une con le altre. Per Serena dopo la decostruzione c’è solo la “guerra per la pietà”, una pura anarchica affermazione di principi in lotta. Prendiamo atto che non sussiste dialogo e ricerca di piani universali di discorso, ma solo guerra, e passiamo dunque oltre, non saranno più neanche necessari dibattiti di questo tipo.
Devo riconoscerlo, è abbastanza marxista come procedura, mi sembra che si voglia salvare capre e cavoli: si afferma che la morale non c’entra, che è tutto un mondo di interessi in lotta; nel frattempo si usa un linguaggio da sermone della domenica, pieno di sangue, pietà, dolore, amore, inferno et cetera, ovvero finalizzato a ingenerare nell’ascoltatore una disposizione morale. Insomma si fa i moralisti senza aver nominato formalmente la morale.
Se è voluto come effetto, e sotto sotto secondo me è perfettamente voluto, è una strategia comunicativa molto efficace e collaudata: il predicatore Marx in questo modo riuscì a passare a lungo da asettico scienziato; l’asettico scienziato Marx in questo modo suscito l’entusiasmo di milioni di devoti moralisti. E tuttavia è mutilata, rischia spesso di non salvare né capra né cavoli. In realtà Marx fu un predicatore poco appassionato, e come tale puntualmente surclassato dalle ben più efficaci retoriche fasciste, e uno “scienziato”, se così può dirsi, tutt’altro che asettico e senza pregiudizi.
Esattamente come dovrebbe fare chiunque, su un qualsiasi argomento. Come l’antispecismo. Ma poi ci si incazza se solo si osa mettere qualche link, o consigliare una piccola bibliografia.
Penso che “incazzato” sia uno dei termini più lontani dal descrivere il mio attuale umore, e anche quello che avevo quando scrissi l’articolo precedente. Sono spesso sarcastico, spesso sprezzante … incazzato raramente. Un tentativo di screditare l’avversario come ignorante è qualcosa che ci si può normalmente aspettare in qualsiasi scontro dialettico e a cui si fa rapidamente il callo se se ne seguono molti.
Avete presente la barzelletta della mosca e dello scienziato?
Un esimio professore di stampo bocconiano, entomologo di chiara fama e di oscuri principi, pensò di eseguire un delicato esperimento nel suo laboratorio di ricerca. Prese una mosca ammaestrata dai suoi predecessori a spiccare un piccolo balzo ogni qual volta veniva pronunciata la parola “salta!”, e cominciò col rimuoverle una prima zampetta. Le ordinò poi di saltare e, nonostante la menomazione, la mosca saltò. Il perverso studio comportamentale si protrasse con le stesse modalità finché, privata anche dell’ultima zampetta, la poverina non riuscì più a saltare e malconcia se ne stette immobile. A questo punto l’enciclopedico scienziato appuntò imperterrito sul suo taccuino l’annotazione conclusiva: “una mosca, privata delle sue zampe, diventa sorda!”
Chi mi conosce sa bene che perdo tempo per confutare argomentazioni. Lo perdo anche per confutare magari delle battute o delle singole parole o termini che però dietro portino un’argomentazione almeno implicita. Non confuto barzellette però.
Non è così semplice, in realtà. Se davvero nel nostro presente serpeggia, soffocato ma mai completamente assopito dal potere della routine e dalle istituzioni, un dilagante sentimento di pietà verso gli altri animali (a nostro parere evidente nelle pesanti incongruenze collettive che regolano il nostro rapporto con loro), sulla relazione uomo-animale sono già stati posti i germi della questione morale. Non solo dagli antispecisti.
Può essere posta una questione morale su ogni cosa, una volta che si sia raggiunta una massa critica di persone che non si facciano i fatti propri. In Uganda al momento è posta la questione morale sulla legittimità di fare sesso omosessuale; si è raggiunto un dilagante moto di terrore, un sentore di caccia alle streghe, e si pone una questione politico/morale. Io sono un radicale ed onesto sostenitore dell’analogia, quando non identità di struttura, fra politica ed etica; parallelamente mi sono sempre preoccupato di mantenere la possibilità di portare avanti argomenti politico/etici. Una lotta politica può concludersi in modi non etici, perché per me rimane l’obbiettivo di strutturare una società in forme razionali e convenienti in termini di bene comune. Si può ben dirmi “la mia lotta è per uccidere tutti quelli col nasone”, ma pretendere che sia giudicata politicamente uguale a “voglio il matrimonio egalitario” non è per me accettabile. Sono cose politicamente e moralmente diverse, ho argomenti per dire che il primo è una cazzata e il secondo è desiderabile.
Ignoro se Serena sia davvero convinta che qualsiasi afflato emotivo sia solo in quanto tale sempre e comunque legittimo e desiderabile. Io affermo che è così solo finché rimane nella pura sfera della soggettività, ma che assuma subito connotati di giustizia quando confrontato con un ideale del giusto; un ideale che è un’astrazione razionale di origine umana, ma non per questo è privo di valore, esattamente come non è priva di valore l’arte solo perché è un’astrazione umana.
Secondo me l’autrice non è persuasa davvero che la giustizia non esista affatto, o similmente che essa dipenda interamente dallo svolgimento di lotte politiche. La mia idea, la mia idea fondata in lunghi dibattiti anche con l’autrice e nella lettura di suoi autori favoriti, è che resti il pensiero che ci siano “afflati emotivi” buoni e “afflati emotivi cattivi”, così, a priori. Per cui se hai pietà e amore ciò ti dà una qualche marcia in più, se invece odi, o ti arrabbi o ti spaventi, quello è qualche cosa di meno. Insomma la mia idea è che la categorizzazione di un bene e di un male a priori di ogni considerazione sociale e dunque “naturali” torni continuamente, qui nella forma di un movimento intimo che vuole categorizzare il giusto e lo sbagliato semplicemente sulla base di incasellamenti emotivi.
Come si vede, laddove non è chiaro se l’autore propenda per l’una o l’altra opzione, la cosa migliore che posso fare è valutarle entrambe. Siamo con Stirner, e la morale è sempre quella di chi vince, o siamo con Nietzsche, e la morale sta in una valutazione estetica? Sono un fan di entrambi, ma in un precedente articolo chiarivo la mia posizione sul tema: fanno solo decostruzione dell’etica, quindi vanno superati entrambi perché bisogna ricostruire.
Non si è argomentato nel merito perché si è costruita un’intera critica, perfettamente non a luogo, su un “afflato”. Come recita il titolo di un articolo del baldo MV, L’etica non è emotività: e dopo avercelo insegnato, pretendete di trarre un’etica da una rivendicazione così squisitamente emotiva?
Penso che quanto scritto finora sia sufficiente risposta a quest’accusa. L’etica non è emotività, il principio del giusto e dello sbagliato non è dunque l’emotività, quello è il senso del titolo e dell’articolo citato. Dunque forse giusto e sbagliato non esistono, e c’è solo la guerra. Che vina il migliore allora, tanto non credo siano gli “antispecisti”. Oppure sarà un altro il principio del giusto e dello sbagliato, e va caratterizzato; e si direbbe che sia una valutazione estetica, basata su una distinzione a priori, “naturale”, fra le emozioni buone e le emozioni cattive. Che non sarebbe una novità peraltro, Russell inserì un’emozione nella sua definizione di ciò che è giusto, l’amore (“ciò che è spinto dall’amore e guidato dalla conoscenza”). Forse Serena fa lo stesso, ma allora non vedo con quali argomenti possa rispondere alla mia critica di vedere un ordine morale semplicemente inscritto nelle nostre emozioni, ovvero nella nostra dotazione naturale immediata, quella che per di più è comune anche a molti animali e che li spinge alle peggiori efferatezze.
Ossequi.