Gheorghe Zamfir – The Lonely Shepherd
Oggi mi sento un po’ strano.
Sento dentro di me due pareri discordanti sul medesimo argomento: una parte di me dice che devo assolutamente pubblicare qualcosa a proposito dell’estate appena terminata, l’altra mi suggerisce semplicemente di lasciar perdere. Il bello è che non so ancora a quale dei due me dare retta.
Per sopperire a questa sorta di malessere ho deciso di scrivere come facevo una volta: senza pensare ad un preciso argomento, solo scrivendo. Il punto non è importante, quello verrà fuori alla fine.
Ovviamente c’è sempre la musica a farmi da compagna in questi momenti di scrittura. E come potrei solo pensare di farne a meno.
Ecco, dunque, affacciarsi dinnanzi a me una strada. Non un semplice viottolo in mezzo ai campi, una strada. Avete presente quelle lunghe e sterminate vie americane che sembrano perdersi nel desertico nulla? Eccola lì, avete appena focalizzato quello che sta davanti a me.
Il percorso è dietro, non molto difficoltoso di per sé, ma lo sfinimento viene dal caldo, clima che quando presenta un tasso troppo elevato di umidità mi trovo a odiare con tutto me stesso. Il sole sembra fare apposta a tentare di bruciarmi la fronte ad ogni passo che compio.
Le provviste sono poche, quasi tutta acqua. Il mezzo mi ha mollato qualche chilometro fa. Che caldo fottuto! Sono dell’idea che se morissi in questo preciso istante nessuno si accorgerebbe di ciò che è accaduto.
Sono profondamente convinto che un mio decesso in questo posto potrebbe passare del tutto inosservato, anche da coloro che sembrano tenere a me. Immagino già la mia bocca piena di vermi bianchi. Senza contare quelle dannate mosche che si rifocillerebbero a volontà con le mie carni in formato buffet. Desiderate un po’ di salsa bbq? Occhio che non è offerta dalla casa!
Però, pensandoci bene, forse il mio corpo non farebbe in tempo a farsi mangiare dai fottuti avvoltoi. Forse per questa strada potrebbe passare un nativo tutto capelli neri lisci e whisky. Cicchetto gentilmente offerto da coloro che centinaia d’anni prima rubarono la terra dei suoi padri.
Il pellerossa adagerebbe la mia salma sul suo camioncino bevi-diesel e mi porterebbe nel cimitero della sua gente, dove forse riposerei in pace avvolto da una calda coperta di pelle (sintetica) di bisonte; inutile dire che ormai le pelli autentiche di tatanka sono una rarità anche per lui.
A questo punto mi piace immaginare che il mio amico dalla pelle rossa non sia un povero indiano ridotto all’alcolismo, ma un grande e potente sciamano dimenticato sia dall’uomo bianco ché dalla sua stessa gente. Vive in solitudine, in compagnia di un lupo malandato la cui fedeltà è dovuta principalmente dalle porzioni abbondanti di cibo che riceve regolarmente.
La sua capanna è in mezzo al deserto, in un incavo formato dalle rocce della montagna sulla quale sorge il suo cerchio magico.
Lo sciamano non è abituato a ricevere visite, perciò anche solo il fatto di trovarsi in compagnia di una cadavere cotto dal sole è una bella novità per lui.
Sono ore e ore che continua a parlarmi. Certo, posso sentirlo, ma non posso rispondergli. Mi verrebbe da alzarmi e chiedergli perché parla con il cadavere di uno sconosciuto.
La narrazione va avanti e il vecchio mi racconta tutto a proposito della sua tribù, della guerra che cancellò le tracce del suo popolo e della crudeltà del popolo invasore che di punto in bianco decise di sottrarre la terra ai suoi nativi.
Le sue parole sono calme, l’odio non le affligge. Il sentimento che trasudano è apprensione, per una manica di uomini incontentabili e avidi oltre ogni misura. La loro sete di potere è solo pari alla loro irrispettosa stupidità.
Intanto è scesa la notte, e le sue parole ad un tratto si fermano. Mi dice di provare ad alzarmi. Ha ragione: il mio corpo non è più una putrescente ed inanimata carcassa. Le gambe tremano un pochino, ma riescono a reggermi.
Lo sciamano fa pochi passi verso di me e si ferma solo quando il suo volto è a pochi centimetri dal mio. Mi posa una mano grinzosa su una spalla. Il suo sguardo è ipnotico, i suoi occhi stanchi sono pregni di un magnetismo che ha dell’incredibile.
Tutti i suoni si ammutoliscono, e ora le sue poche parole risuonano nel deserto circostante, profonde ed illuminanti.
Il sole continua a battere, e la mia pelle ne risente incredibilmente.
Sono sudato all’inverosimile, ma per niente disidratato. Sembra che il deserto non abbia più effetti su di me. Ha perso la sua carica malefica, la sua volontà di fermarmi.
So cosa mi ha dato nuova linfa: le parole dello sciamano, ahimè solo un sogno.
Infilo una mano in tasca e recupero la mia agendina da viaggio, il mio diario di scrittura tascabile. Con la matita traccio saldamente quelle che rimarranno in me parole indelebili e da ricordare per tutta la vita che mi aspetta.
«La fine della strada. Continuo camminando.»
E.