Contro la ‘ndrangheta, a far la differenza.

Da Suddegenere

Scritto per scirocconews

(foto di Cinzia Paolillo)

“Una donna sola è una vittima, insieme diventiamo testimoni”

Non sfugge quanto sosteneva anni fa Renate Siebert in Donne  di mafia. Affermazione di un pseudo-soggetto femminile. Il caso della ‘ndrangheta, a proposito del ruolo delle donne nelle organizzazioni criminali di stampo mafioso, e cioè che nel tempo si è fatta strada un’immagine differente  ed in forte contrasto con lo stereotipo di donne con un ruolo passivo di madri e mogli, arretrate e all’oscuro delle attività criminali dei familiari. Uno pseudo-soggetto femminile aderente all’ordine materiale e simbolico maschile, in maniera attiva, irresponsabile nei confronti delle altre donne ma prima di tutto di se stessa.
La Siebert, partendo da una riflessione sulla criminalità femminile all’interno delle dinamiche specifiche della ‘ndrangheta e sulla questione del rapporto tra donne e violenza, arrivava a fornire una serie di interpretazioni che, rispetto a fatti di cronaca recenti, mi sembrano assolutamente lungimiranti.

Se è vero che gli spazi di una collaborazione in condizioni segnate da violenza e ricatti sono ridotti, come può avvenire quando c’è o si teme la sottrazione dei figli – sottolineava R. Siebert – non si tiene in conto che la violenza vissuta su se stesse può raggiungere livelli di insopportabilità nel momento in cui, più che riguardare le attività mafiose, investe le relazioni personali più intime.
A differenza degli uomini, continuava R. Siebert, le donne sono portatrici di una inconsapevole memoria storica della vulnerabilità del proprio corpo. In questo senso, la collaborazione femminile é agevolata dalla violenza che l’uomo usa sul corpo delle donne e finirebbe col rappresentare non una ribellione alla violenza dei crimini di ‘ndrangheta ma una ribellione alla violenza subita sul proprio corpo.

È quello che probabilmente è capitato a Giuseppina Pesce, trent’anni, tre figli e già una lunghissima e difficile vita alle spalle. La sua collaborazione ha consentito l’arresto di numerosi familiari, ma ha anche restituito verità alla vita di un’altra donna, Annunziata Pesce, uccisa nel 1981 dalla propria famiglia per aver avuto una relazione al di fuori del matrimonio e per di più con un carabiniere. È stata proprio Giuseppina a raccontarci di questa donna della quale avevamo perso memoria, una donna che per noi era semplicemente scomparsa, ma che invece aveva pagato con la vita il tradimento del marito, onta inaccettabile per la famiglia di ‘ndrangheta. Lo doveva sapere anche Angela Costantino, moglie di Pietro Lo Giudice, strangolata e seppellita in un terreno mentre la sua auto finiva in mare nel 1994, rea di aver tradito il marito mentre questi era in carcere, e di portare in grembo il figlio di un altro.

Nella famiglia mafiosa, sono l’onore della famiglia – o meglio del maschio – e le regole ad esso legate a prevalere su quelli che comunemente vengono considerati gli affetti più cari, sempre e necessariamente. Legami di sangue, che solo col sangue possono essere lavati.

Giuseppina Pesce vuole riappropriarsi del suo corpo e della sua vita, sceglie per se stessa e per il bene dei suoi figli. La sua scelta di collaborare è tutt’altro che indolore, e a certuni fa paura perché non si può comprare e neanche barattare. Per cui succede, anche, che qualche giorno prima che Giuseppina venga sentita in videoconferenza nell’aula bunker del carcere romano di Rebibbia nell’ambito del processo agli affiliati della cosca, dal regime di 41bis lo zio provi a screditarla sostenendo che la nipote ha bisogno di uno psichiatra, perché non sa quello che dice.

Ma Giuseppina conosce benissimo il senso e il peso delle sue parole, meglio di chiunque altro. L’avrebbe potuta capire Maria Concetta Cacciola, se non si fosse tolta la vita nel più doloroso dei modi possibili, suicidata con acido muriatico. Oppressa dalla violenza fisica e psicologica di genitori e fratello, picchiata selvaggiamente dopo l’invio di una lettera anonima secondo la quale Maria Concetta avrebbe avuto una relazione extraconiugale mentre il marito era in carcere. E forse è proprio per colpa di quelle violenze, una costante nella sua vita, che Maria Concetta aveva deciso di diventare testimone di giustizia; ma poi la lontananza dei figli (lasciati per entrare nel programma di protezione), la disperazione, la solitudine hanno fatto tutto il resto.

Non è per caso, quindi, se in Calabria molte donne stanno facendo la differenza contro la ‘ndrangheta. E non sono solo le sindache Elisabetta Tripodi, Carolina Girasole, Maria Carmela Lanzetta e tutte le donne che rischiano la vita ogni santo giorno per aver scelto consapevolmente, e con coraggio, di lavorare al servizio della comunità. Ma anche quelle donne che hanno sempre vissuto in un tessuto familiare e sociale intriso di criminalità efferata, che non hanno potuto mai avere grandi chances nella vita, che sono cresciute nell’ordine simbolico monosessuale (maschile), che sanno sul loro corpo cosa vuol dire violenza, ma che riescono a trovare la forza e autorizzano se stesse ad altro.

Nel nome di Lea Garofalo (testimone di giustizia torturata, uccisa e sciolta nell’acido nel novembre 2009, a 35 anni), Tita Buccafusca (testimone di giustizia suicidata nell’aprile 2011, a 38 anni), Maria Concetta Cacciola (testimone di giustizia suicidata nell’agosto 2011, a 31 anni), che hanno pagato con la vita; per Denise, la figlia di Lea che si è costituita parte civile contro il padre; per Giuseppina Pesce che ha ripreso a collaborare, dopo aver ritrattato per il (fondato) timore che potesse succedere qualcosa ai suoi figli; per tutte le Sdisonorate e le Malanova calabresi.


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