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Qualche sera fa ero a cena con Robert Fisk, in un ristorante in riva al mare, a Beirut. Abbiamo parlato di molti argomenti. Anche di che cosa significhi essere giornalisti oggi, in un'epoca dove la definizione sembra essere di esclusivo dominio di chi si interessa di calcoli e cifre e molto meno (direi: niente affatto, o come scriverebbe Montanelli: punto) di chi persegue (per natura e per passione) una restituzione della realtà che consenta di aprire gli occhi, di distinguere il farsi della tenebra luce (accettabile anche una distinguibile penombra) o perlomeno di non farsi prendere per fessi. E così' ci siamo trovati a scambiare qualche parere sul soldato (sergente maggiore) americano che in Afghanistan avrebbe, da solo (da solo?), assassinato 16 civili. Robert Fisk mi diceva che nemmeno sotto tortura avrebbe, lui,accettato di credere che fosse l'opera di un pazzo, di uno squilibrato. Di un soldato stressato. La definizione di "terrorista" spetta sempre e soltanto agli altri, ai cattivi. Mai ai "buoni". Se un "buono" ammazza, è sempre perché: o si è sbagliato, o era sottoposto a grave stress psicologico. Robert Fisk stava covando QUESTO articolo. Il pensiero come resistenza significa essere contro: contro le verità cucinate al microonde degli spin doctors, contro l'idea che la realtà sia quella che vedi. L'indole di un curioso sfugge per natura alla comprensione dei contabili.