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Natale sul Sinai. Ecco, sì, mi sembra proprio questo il titolo esatto, il più tecnicamente appropriato per il telepanettone di Roberto Benigni, Premio Oscar, presto anche Premio Cei, a tutte le anime belle e timorate del Servizio pubblico, agli affamati di grandi storie a reti unificate e finalmente, e soprattutto, moralizzate, ai bisognosi di maiuscole teologiche, di scenari assoluti e toccanti non meno televisivi nazionali, gli stessi che, alla fine della visione, hanno il dovere di stimolare un: oh, sì, adesso sì che l’imene della purezza tematica è nuovamente intatto, Dio, Viale Mazzini e l’eterno bisogno di espiazione siano lodati.
Esatto: Dio, Rai, Audience, Famiglia, Narrazione, Misura, Emozione, Sobrietà, Commozione, Cilicio, Inginocchiatoio, Confessionale, Approvazione ecclesiastica con tanto di riferimento alla Bibbia della Cei, ossia garantita, appunto, dai memorabili, intoccabili, improbabili vescovi italiani, e ancora, planando sul boschetto di braccia tese nella retorica dell’etica famigliare e dell’onesto lavoro, ecco il ricordo del Padre che zappava l’orto laggiù in Toscana e intanto discuteva con Don Tasselli, il caro prete, dunque anche un riferimento, sia pure in filigrana, alla struggente e non meno cara leggenda di Don Camillo e Peppone finalmente riconciliati, allo strapaese cattolico, con vista sul refettorio salesiano, al genitore pio e laborioso frequentatore della Casa del Popolo perché, come già pensava qualcuno, è ora e sempre il compromesso storico, bellezza!
E ancora, sempre lì, nel medesimo telepanettone sempre più con approvazione ecclesiastica e perfino consulenza del poeta ufficiale di la Repubblica Franco Marcoaldi, ecco perfino una finestrella, uno spioncino, una bocca di lupo sulla cronaca spiccia, così, giusto per introdurre l’oglio delle battute davanti al pubblico in sala, batttute da parte del comico emendato d’ogni volgarità, d’ogni desinenza in “accio”, che fanno comunque sempre il loro bell’effetto, dài, sul presente criminal- rionale capitolino, così rispetto al grano del Sacro – «Siete tutti a piede libero, no?» – e poi quell’altra sui lampeggianti blu intorno al Campidoglio. Esatto, mancava, a meno che non mi sia sfuggito, soltanto un riferimento a Silvio Berlusconi e a una sua possibile giovane frequentatrice spacciata per la nipote di Mosè, così giusto per l’apoteosi della simpatia.
Dunque, da Benigni, sempre tecnicamente, attorialmente, curialmente parlando, abbiamo ricevuto una straordinaria maratona sui Dieci comandamenti, attenta, meticolosa, supportata dalle note personali dell’attore e insieme dalle note a piè di pagina di incunabolo di coloro che la Bibbia l’hanno studiata in modo sistematico, l’hanno rivoltata come si fa, appunto, con il grande calzettone immacolato e libero da ogni possibile tanfo di Dio, dell’Innominabile. Una prova di tenuta, che tuttavia tanto più era grande e imponente e perfino michelangiolesca, quanto più andando avanti nei dettagli e nel racconto e perfino nella chiosa, faceva scatenare nell’intimo l’incendiario, l’anarchico, l’iconoclasta che dimora dentro ognuno di noi, faceva venire appunto voglia di gridare contro lo schermo un implacabile «Grazie, le faremo sapere!», come già il non meno innominabile Giuliano Ferrara fece munito di uova un tempo durante una precedente prova non meno oceanica dello stesso Benigni, quella volta c’era però di mezzo il Festival di Sanremo, ossia un omologo culturale dei Dieci comandamenti nella percezione teologico-spettacolare nazionale.
Oh, povero senso dell’ironia calpestato dal figliol prodigo Roberto. È stato al momento del racconto del roveto, con la voce di Dio che sembra chiamare Mosè per affidargli l’alto incarico di salvare il suo popolo, è stato esattamente in quell’istante che il racconto di Benigni mi è sembrato simmetrico all’incubo della programmazione televisiva che il Servizio pubblico del tempo di Bernabei e delle grisaglie democristiane accompagnate da occhiaie degne d’onanismo segreto donava ai bimbi, quando nei giorni della cosiddetta Settimana santa di Pasqua ogni sorriso veniva spento dalle musica per violoncello solo, dai canti della Passione, dai film dei centurioni infami torturatori di poveri cristiani, è stato a quel punto che mi sono tornati in mente i film con i leoni che sbranavano proprio gli antichi fedeli di Gesù, così l’incubo dell’infanzia mostruosamente cattolica. Dimenticavo, mi è tornato perfino in mente quando a scuola una prof stronza mi aggredì perché « tu non sai neppure fare il segno della Croce, lo dirò subito al collega di religione, lo farò presente anche ai tuoi!». Scema, avrei dovuto dirle, i miei genitori tra il suo Dio e il tagliaunghie non hanno dubbi, il Trim.
A metà solfa di Benigni sarei uscito in strada cercando nel buio della sera il triste gazebo dei non meno pietosi Atei materialisti per ritirare l’apposito modulo per lo sbattezzo, magari abbracciandoli in lacrime. Bravissimo, davvero bravissimo Benigni, devo ringraziarlo per avermi ridato la voglia di urlare “né dio né padroni” rivolto alla tromba delle scale. Né segretari di partito, dimenticavo. Alla fine, restando in tema di Dieci comandamenti, andando a letto, mi è tornato in mente ciò che si narrava del povero Reagan ormai preda dell’Alzheimer, sembra che l’ex presidente, incontrando il già collega Charlton Heston nel 1995, gli abbia chiesto come andassero gli incassi del film omonimo di quasi quarant’anni prima, dove appunto Charlton vestiva la barba di Mosè, e quello: «Bene, Ronald, siamo in testa». Spero che questo pietoso aneddoto abbia il potere di liberare un sorriso davanti al supplizio avuto in dono dal caro Roberto e il suo Natale sul Sinai. La parabola di Benigni? Da comico a esorcista.http://feeds.feedburner.com/BlogFidentino-CronacheMarziane
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