Questa non è una corsa. E’ più un rito. Uno strano ritrovo che sembra un sedersi al bar con in mano la Gazzetta. Letta al contrario però, dalla parte del ciclismo. Mezza imprecazione, mezzo sorriso.
Ritrovarsi. Come da tradizione.
Perché in Brianza c’è ancora quel sottobosco lì. Che l’Agostoni è la corsa di casa, l’evento dell’estate anche se oggi è settembre e c’è un tempo da autunno inoltrato. Che l’Agostoni è un pezzo di noi, di questa terra di mangia e bevi che non molla mai. Impari subito che dopo la salita viene la discesa e poi ancora un’altra salita.
Che l’Agostoni è unica.
LISSONE.
STABILIMENTO CLEAF.
ore 9.30
Da poco ha ricominciato a piovere. Nessun sito delle previsioni dà la benché minima speranza per oggi. L’asfalto è lucido, il cielo bianco, il profumo delle mattine d’estate cancellato. C’è l’umido che entra nelle ossa come una giornata d’ottobre. Ci sono le larghe pozze trasparenti. Non riflettono niente. La gente ci cammina sopra. I pullman fanno manovre strane per entrare nei cancelli, i brianzoli in piccoli crocchi di amici del bar indicano biciclette e consumano con le loro dita le liste partenti inumidite.
Tel chi ul Giuvan!
La lingua è il dialetto. Autentico patrimonio legato al ciclismo e a tutto quello che gira attorno ad esso.
Facce segnate dall’ultimo sole in campagna o nell’orto dietro casa che scrutano da sotto gli ombrelli. Il percorso viene recitato a memoria come un Padre Nostro e per chi ancora non lo sa c’è sempre l’amico trovato per caso. Che si spiega a gesti, a voce alta nella pioggia, con l’ombrello tenuto contro il fianco per avere tutte e due le mani libere, scavando in quei punti di riferimento da indigeni che sono esclusivamente per chi ha vissuto queste strade da quando era un bagain.
I ciclisti scendono silenziosi, questa pioggia non smette di scendere. Vien giù forte, gocciola giù dai caschi e dalle mantelline. E non sono ancora partiti. Signori coi baffi e il kway elargiscono pacche sulle spalle e sorrisi. Kudus prende un telefono e fa una foto al suo collega con alcuni amici. Piove meno. Qualcuno ride, qualcuno è rimasto a letto col pensiero. E’ una giornata da sonno questa. Invece le gambe dovranno sopportare il Lissolo quattro volte. Un percorso diverso che forse mescolerà le carte di questa giornata che già è mescolata di suo.
Non ho mai visto un’Agostoni sotto la pioggia.
LISSOLO
Ore 12.15
Sale la nebbia. E’ quasi come a novembre, quando le case accendono i camini e per i boschi c’è odore di legno umido, di terra bagnata. Salendo da Santa Maria Hoè e poi da Colle ci si ritrovava d’improvviso immersi nelle nuvole. Una giornata semispettrale in certi luoghi lontani dal mondo. La Brianza su e giù, una strettoia, il muro antico di una cascina, un tetto di robinie lungo la strada che non lascia passare la luce.
Questo è il GPM e qualche ragazzino saltella con in mano uno smarphone. Manca ancora un po’ al passaggio. L’ultima curva si riempie lentamente.
Mi vo suu a mangià! Dice spazientito un signore.
Ma adesso passano! Gli fa una bionda, forse sua moglie.
Un altro, chiuso a metà in un impermeabile, spiega che sono partiti tardi, che c’è ancora tempo.
Scende un gruppetto di amici, si fermano in curva, parlano in dialetto di cose loro. Poi uno di loro indica i rovi con l’ombrello. Sempre in dialetto dice che quest’anno ne ha colte una marea. More. Restano solo le piante. Ma lui continua a raccontare delle more di quest’anno che son state più buone del solito. Sarà l’aria, sarà il tempo. Sarà che è stata una buona stagione anche se adesso sembra lontana.
In un attimo la nebbia si dissolve. Il cielo resta bianco ma tutto è più chiaro, anche il muretto della curva dove un temerario si arrampica in semi equilibrio.
Arrivano.
La macchina di inizio corsa, poi un secondo di scompiglio generale e di nuovo la strada libera. La piccola curva sperduta in uno dei punti più alti della Brianza si anima. La ola che cresce e si perde nell’anima umida del bosco. I fuggitivi hanno quattro minuti. Poi c’è il gruppo, ancora tutto insieme. Niente selezione. C’è un penultimo, un ultimo.
Dai che è quasi finita.
Tradizione, anche questa. Gridare che è finita. A volte è una bugia. A volte, come in questo caso è vero e basta.
LISSONE
VIA MATTEOTTI
ore 15.00
Venite qua sotto l’ombrellone!
L’ombrellone è un gazebo sotto la pioggia battente. Dal precario tetto di stoffa scroscia acqua come una cascata. Lui è un signore coi baffi seduto al tavolino. Uno dei pochi asciutti. Lo dice ai suoi amici che sono sulla strada. Il rettilineo d’arrivo. Le transenne gocciolano, il traguardo è lucido.
C’è Zilio in fuga. Lo dice lo speaker, lo dice la radio che gracchia a metà, ogni tanto. Quaranta secondi. La pioggia accompagna l’attesa che si allarga e si restringe. A tratti. Trenta secondi. Il Lissolo ancora. E’ strano, poi quando rivedi tutto in televisione sembra che siano state cose da niente, invece sei restata seduta minuti che sembravano ore a pensare ai secondi che scorrono, a dire che qualche volta, anche nelle corse di un giorno, può succedere una cosa che nessuno si aspetta. Soprattutto qui.
Venti secondi. Smette un po’ di piovere, l’acqua non scroscia più come una cascata. Diciannove. E poi in un attimo rimangiato dal gruppo. Qualche volta, anzi quasi sempre, per le cose che nessuno si aspetta, bisogna avere pazienza.
Esce il sole. Un mezzo miracolo. C’è un primo passaggio nel circuito cittadino. Di nuovo buio, le nuvole basse. Nibali, Scarponi, Rebellin. Il gruppo. Come è andata lo sanno tutti. Quello che forse non si può mai raccontare a parole è il silenzio prima dell’arrivo. Profondo, senza suoni che riescano a bucarlo. E poi quell’improvvisa agitazione di corpi, di braccia e di teste che vorresti dire di stare fermi, che si può guardare e fotografare tutti senza dar fastidio a nessuno. Ma è una cosa inconcepibile. Non succederà mai. Allora stai in silenzio. Nell’orecchio del bambino che c’è davanti a me sussurro: “cucciolo, puoi stare fermo?”. E allora capisci che per la gentilezza e l’educazione c’è speranza. Perché lui sorride e dice di sì con la testa. Poi ci perdiamo nella confusione dell’arrivo ma questa è una cosa che non dimenticherò.
I corridori svicolano tra la gente che si dirige verso il podio come in autodromo. Sento di avere una noia profonda per i podi. I pullman son lontani ma forse con un po’ di fortuna li raggiungo in tempo per prendermi ancora qualcosa di buono. Svicolo anche io tra la gente.
Fuori dalla folla c’è Simone Petilli appoggiato ad una transenna che parla con qualcuno. Un ragazzino gli si avvicina timidamente. Ha in mano un taccuino nero e una penna. A bassa voce chiede a Simone il numerino. Mentre lui si fa aiutare a togliere pazientemente le spille da balia, il ragazzino sorride impaziente all’amico di fianco. Simone glielo autografa e gli dice che forse un giorno anche lui correrà quella corsa, forse un giorno anche lui sarà tra i pro e avrà un numerino da regalare. Lo dice con il sorriso, come sempre.
Son cose che si tramandano, nel ciclismo più che mai. Perché il legame tra il ciclista e il tifoso è così stretto che scolpisce qualcosa dentro. Qualcosa che non ti scordi più.
Il ragazzino corre via, lo ritrovo pochi metri dopo con Nizzolo. Piccolo cacciatore di numerini su un rettilineo oramai deserto.
Forse un giorno.
Forse un giorno saremmo tutto quello che abbiamo sognato. Qui, in questa terra dove siamo nati e abbiamo imparato a rincorrere la strada che tutti gli altri ignoravano e che, invece, è proprio la nostra.