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Corno d’Africa, alle radici del conflitto permanente (seconda parte)

Creato il 24 novembre 2013 da Luca Troiano @LucaTroianoGPM

Il quadro regionale

Nell’immaginario collettivo il Corno d’Africa assomma un po’ tutti i problemi senza fine e senza soluzione del Continente nero. Non a caso quest’area martoriata vanta due tristi primati: quello di regione più povera del continente, se non del mondo; quello del conflitto di più lunga durata, la guerra tra Etiopia ed Eritrea protrattasi per oltre trent’anni (1961 – 1991). E’ in questa estremità, più che in ogni altro luogo, che la visione geostrategica dell’Occidente fa a pugni con le sue stesse contraddizioni.
Negli ultimi anni – vale a dire dalla ingloriosa fine della missione Restore Hope in Somalia - l’attenzione di Europa e America si è posata su queste lande solo in virtù della sua dimensione internazionale, intesa come variabile regionale della drammatica lotta senza quartiere del mondo contemporaneo che contrappone l’Occidente al radicalismo islamico. Questa linea ignora tuttavia le lacerazioni interne alla regione, la quale non è peraltro immune da pregiudizi e semplificazioni. In genere si tende a spiegare le tensioni africane attraverso il consueto riferimento alla dimensione etnico-confessionale, dimenticando però che la Somalia è il Paese africano meno differenziato dai punti di vista linguistico, culturale e religioso, e che i gruppi dirigenti eritreo ed etiopico sono del tutto omogenei linguisticamente e culturalmente.
Oggi, nel Corno, continuano a coesistere tre diversi livelli di conflitto politico e militare – interni ai singoli Stati, regionali e, per l’appunto, quello tra Occidente ed estremismo di matrice islamista - che si intrecciano e si aggravano reciprocamente senza che l’intellighenzia euroatlantica riesca a capire il perché.

Somalia, la guerra permanente

E’ scontato affermare che il lembo di terra in cui i tre livelli si manifestano con maggiore intensità sia la Somalia. L’implosione dello Stato somalo (primo livello del conflitto) iniziò nel 1987 con la fondazione del Congresso della Somalia Unita (UCS), organizzazione paramilitare la cui ala militare (basata in Etiopia) era capeggiata dal generale Mohammed Farah Aidid, ex collaboratore stretto di Siad Barre edex capo dei servizi segreti, incarcerato negli anni Ottanta perché sospettato di organizzare un colpo di Stato contro il presidente. L’UCS era espressione di un clan, gli Hauia, che da sempre rappresenta la tribù maggioritaria della Somalia, e che fin dall’indipendenza occupavano le principali cariche amministrative e ancor più quelle militari. Lo stesso Siad Barre apparteneva agli Hauia; tuttavia proprio in seno a questo gruppo si annidava il principale focolaio di opposizione, a causa delle brutali aggressioni patite sotto la dittatura militare.

La guerra civile nacque dal fatto che l’UCS, dopo la caduta del dittatore, a fare fronte comune con gli altri movimenti di opposizione. La scelta di uno dei suoi più autorevoli membri, Ali Mahdi Mohamed, come presidente ad interim. suscitò l’opposizione di Aidid e del suo sottoclan, gli Habr Ghedir, dando inizio alle feroci battaglie che di li a poco avrebbero insanguinato il Paese. Sia Ali Mahdi che Aidid erano due capi militari, ed entrambi avrebbero meritato un posto d’onore in qualunque tribunale per crimini di guerra, crimini contro l’umanità e i traffici di armi e rifiuti tossici per indagare sui quali i giornalisti RAI Ilaria Alpi e Miran Hrovatin vennero uccisi nel centro di Mogadiscio il 20 marzo 1994. Eppure l’Occidente vedeva, nel primo, un amico da appoggiare, e nel secondo, un nemico da combattere. Probabilmente perché Ali Mahdi, tramite il suo ufficio di presidente, aveva promesso alle compagnie anglo-americane lo sfruttamento dei giacimenti di greggio situati nel nord del Paese, precisamente nella regione del Puntland. proprio prima che il filoamericano Siad Barre fosse deposto, quasi due terzi del territorio erano stati assegnati in concessione petrolifera a Conoco, Amoco, Chevron e Phillips. La Conoco aveva addirittura dato in prestito la sua sede in Mogadiscio all’ambasciata USA pochi giorni prima dell’arrivo dei Marines.
Dopo la morte di Aidid, nel 1996, altre fazioni dirette da altri capi militari avrebbero contribuito a rinfocolare il conflitto, rendendo vano ogni accordo di pace (come quelli del 1998 e del 2002) nonché tentativo di mediazione.

Il passaggio al secondo e di conseguenza al terzo livello di conflittualità si è avuto con l’avvento dell’unica altra forza effettivamente interclanica esistente in Somalia, quella degli integralisti islamici. Nel 2006 lo scontro tra l’Unione delle Corti Islamiche, poi espulse da Mogadiscio, e il Governo Federale di Transizione è stato regionalizzato con l’intervento della forza AMISOM, i peacekeepers dell’Unione Africana, a cui in seguito si sono aggiunte le truppe di Etiopia (2006 e 2011) e Kenya (2011) fino all’affiliazione di al-Shabaab alla rete di al-Qa’ida. Al-Shabaab, movimento giovanile delle Corti e suo erede di fatto, è dunque solo l’ultimo di una lunga serie di antagonisti che hanno alimentato la guerra civile somala dal 1991 ad oggi; la sua connotazione jihadista ne ha fatto una fonte di preoccupazione per la sicurezza interna dei Paesi occidentali, estendo la portata del conflitto sul piano globale.

Molti hanno interpretato l’ingresso di Addis Abeba prima e Nairobi poi nel calderone somalo come la longa manu degli Stati Uniti di Bush che, impantanati in Afghanistan e Iraq, non intendevano aprire direttamente un nuovo fronte nella guerra al terrore. In realtà il duplice intervento è dettato più probabilmente dalla competizione in atto tra i due Paesi per la supremazia regionale, nella quale la partita per la Somalia rappresenta l’elemento chiave.
Nondimeno l’attivismo del Kenya ha le sue controindicazioni. Innanzitutto sul piano umanitario: i profughi somali che non fuggono verso nord (Lampedusa) scelgono di raggiungere il campo di Dadaab, a nord del Paese, dove si affolla circa mezzo milione di persone, cifra cresciuta notevolmente dalla carestia del 2011. Vi è poi il fronte della sicurezza: l’attentato al Westgate di Nairobi ha reso il Kenya da protagonista a vittima nella lotta contro il terrorismo, in ossequio alla nuova strategia inaugurata dal gruppo.
Viene da chiedersi perché al-Shabaab non si riesca a sconfiggere. La risposta è che finora lo scontro è stato confinato a un livello quasi esclusivamente militare, mentre quasi nulla è stato fatto a supporto delle operazioni di AMISOM sul piano civile. Di conseguenza, la capitale capitale Mogadiscio ed importanti città come Baidoa, Merca e Chisimaio, formalmente liberate dal controllo jihadista, vivono in un costante stato di assedio. E  militari che la AMISOM ha finora conseugito. E il mutamento strategico della milizia, diretto a compiere azioni sempre più distruttive e mirate, potrebbe ridimensionare anche i successi della missione panafricana sul campo di battaglia.

Etiopia ed Eritrea, così simili e perciò rivali

L’altro conflitto regionale nel Corno è quello che contrappone Etiopia ed Eritrea, Paesi uniti da una storia e una tradizione comune, e ciononostante – o forse proprio per questo – divisi da tensioni cinquantennali. Le rispettive classi dirigenti condividono un identico background culturale e provengono da percorsi formativi simili: entrambe nascono dalla contrapposizione militare con il Derg (il regime militare che governò l’Etiopia dopo la deposizione dell’imperatore Hailé Selassié) e formatesi negli anni d’influenza del blocco comunista sui movimenti nazionalisti africani. L’idea che alla base delle reciproche ostilità vi sia stata e vi sia un’esasperata competizione per l’egemonia politica regionale è perciò fuorviante. L’origine del conflitto va ricercata nelle strade diverse, per molti aspetti opposte, che i due governi hanno scelto di seguire dopo la fine del regime.

Addis Abeba rappresenta l’attore più importante sulla scena del Corno d’Africa, sia per la sua centralità politica, sia per le sue aspirazioni – spesso velleitarie – di potenza regionale. Dietro l’apparente solidità si annidano tuttavia forti tensioni connesse ai difficili rapporti coi vicini. A comprometterne le storiche ambizioni concorrono poi altri fattori: l’economia, troppo fragile e seriamente limitata dalla mancanza di adeguate infrastrutture capaci di accompagnarne la crescita; il complesso quadro geopolitico regionale; i molteplici focolai di conflittualità interna che fanno dell’Etiopia di oggi una potenza a metà.
In fondo l’Etiopia è sempre l’erede di una tradizione imperiale, dove coesistono più di ottanta gruppi linguistici ed etnici. La sua vocazione, da Menelik ad oggi, non è cambiata: mantenere il controllo del territorio e assicurare stabilità. Non si cercano conflitti, l’obiettivo è piuttosto di prevenirli e controllarli. Qui però nasce la difficoltà di conciliare l’esigenza del controllo con la speranza di avviare un processo democratico. I massacri dopo le elezioni del 2005 insegnano che la caduta del regime militare nel 1991 e la trasformazione del Paese in un federalismo su base etnica non si sono tradotte nella graduale democratizzazione del Paese.
Le prime due tornate elettorali dell’Etiopia democratica (del 1995 e del 2000) non avevano causato massicce contestazioni e significativi incidenti, ma la mancanza di un’alternativa alla coalizione guidata da Zenawi ha determinato nel tempo un certo immobilismo politico, soprattutto negli Stati più periferici del Paese.

Dall’altra parte in Eritrea, dopo qualche timida apertura iniziale, viene soffocata sul nascere qualsiasi istanza di effettiva democratizzazione. Anzi, mentre in Etiopia si procede alla rifondazione dello Stato attraverso il federalismo etnico, ad Asmara viene bandito qualsiasi progetto politico facente leva su identità etniche e religiose (e più in generale qualsiasi progetto diverso da quello del governo). Qui ogni ipotesi di aggregazione politica è stroncata sul nascere, riservando al potere centrale il ruolo di sintesi tra le diverse istanze trans linguistiche ed etniche che compongono il Paese.
Rispetto all’Etiopia pesa dunque un altro tipo di dinamiche. Il neonato regime ha sempre “giustificato” l’autorefenzialità del proprio potere attraverso l’idea che il Paese è sotto assedio permanente, e che dunque la democrazia è un lusso che non ci si può permettere. Agitando lo spettro della guerra, Asmara richiede dei continui sacrifici ad un popolo pur stremato da decenni di combattimenti. E quando sul finire degli anni Novanta, ad un solo lustro dall’indipendenza formale, il moto di frustrazione popolare è così vasto da non poter più essere contenuto, il governo gioca la sua ultima carta: imbracciare di nuovo le ami contro Addis Abeba. Un maldestro tentativo del regime di ricompattare il proprio consenso che costa la vita ad oltre 19.000 eritrei, lo sfollamento di altre decine di migliaia e il tracollo economico del Paese.
L’accordo  di Algeri, che conclude il secondo conflitto etiopico-eritreo (1998-2000), affida ad una commissione indipendente delle Nazioni Unite  (Eritrea-Ethiopia Boundary Commission) il compito di definire i confini tra le due nazioni. Oggetto del contendere è in particolare la città di Badme. L’arbitrato dell’EEBC, nel 2002, stabilisce che la città debba appartenere all’Eritrea. Tuttavia il governo etiope contesta la decisione e rifiuta di ritirare il suo esercito dalla città, offrendo ad Asmara il pretesto per inscenare nuovi possibili conflitti.

L’intreccio tra primo e secondo livello di conflitto è dovuto al fatto che l’Eritrea combatte Addis Abeba anche per procura. Oggi le tensioni interne al Paese vicino si concentrano soprattutto nei territori dell’Ogaden e dell’Oromia, regioni a maggioranza musulmana in cui sono attivi due gruppi insurrezionali che ricevono un discreto supporto dall’Eritrea, e dove risiedono tuttora alcuni dei loro leader. Per l’Etiopia si tratta di un problema serio, alla luce di quanto illustrato in merito alla priorità di preservare l’unità nazionale, poiché la secessione di anche solo una delle due, viste le rispettive dimensioni, porterebbe di fatto alla completa disgregazione dello Stato. Anche le milizie al-Shabaab erano beneficiarie del sostegno di Asmara, prima che le pressioni internazionali inducessero questa a ridurre il proprio coinvolgimento.

Probabilmente il fattore di maggior peso nei rapporti tra i due contendenti è la difficoltà a far coesistere un progetto statuale legittimato dall’esperienza coloniale – quello eritreo – con l’esigenza dell’Etiopia, il secondo Paese africano per numero di abitanti, di garantirsi uno sbocco al mare. Non a caso, da parte etiope il conflitto del 1998 – 2000 fu incoraggiato dalla prospettiva di rientrare in possesso della città costiera di Assab, la cui regione, quella dancala, è dal 1991 suddivisa tra due Stati differenti. L’idea di una pronta riunificazione servì all’allora premier Zenawi per legittimare una nuova avventura bellica ai propri confini.

Ciò che non riusciamo a capire

La perdurante instabilità della regione che affonda le sue radici in una moltitudine di fattori, sia interni ai vari Paesi che attinenti alle relazioni tra di essi, e ai quali col tempo si sono aggiunti i pesi di fenomeni globali e internazionali, hanno trasformato la punta di orientale d’Africa in un miscuglio socio-geopolitico in ebollizione. Qui la disperazione dei tanti si incrocia con le trame di pochi. Perché migrazioni e terrorismo non sono che due facce della stessa disgrazia, pardon medaglia.
E noi della sponda nord del Mediterraneo non siamo immuni da responsabilità. Le primavere arabe ci hanno lasciato l’immagine di un’Occidente senza soldi e senza leadership costretto ad inseguire eventi che ieri non ha saputo prevedere e che oggi non riesce neppure ad interpretare, figuriamoci a gestire. Le dinamiche in corso nel Corno non fanno eccezione. Ne deriva un curioso – e pericoloso – paradosso: da un lato, la posizione strategica della regione, nonché le perduranti dinamiche conflittuali che lo attraversano, hanno hanno reso il Corno un fondamentale crocevia di interessi geopolitici di portata globale; dall’altro, le cancellerie di Stati Uniti ed Europa si sono sempre autoesonerate dall’incombenza di approfondirne la complessità. E questo nonostante la storia e la politica del Corno d’Africa siano segnate da una molteplicità di fattori che, in forma diversa, tendono a riproporsi di epoca in epoca, provocando ulteriori elementi di frammentazione.

* Articolo originariamente comparso su The Fielder


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