Massimo Scrignòli
Regesto
Book Editore, 2014
Il coraggio è una delle doti della poesia che leggiamo in questo Regesto, un grande volume in cui Massimo Scrignòli raccoglie tutti i testi pubblicati dal 1979 – cioè da quando era un giovanissimo poeta – fino al 2009. E il coraggio è anche alla base di tutta questa operazione che ripresenta i testi così com’erano quando sono usciti, senza imbellettamenti, senza lifting, mostrando quindi tutti i segni del tempo che essi inevitabilmente si portano dietro, cuciti addosso come rughe di cui quasi andare fieri. E dedicarsi all’editoria da molti anni – come Scrignòli fa con la sua etichetta Book Editore – cercando di fare prodotti dignitosi, curando con passione questi strani oggetti che sono i libri di poesia, è un’altra conferma del fatto che il coraggio abita non solo nelle parole, ma anche nell’esperienza quotidiana del poeta ferrarese.
Ma poi, come sempre accade per chi ha coraggio, in questo libro c’è un’indicazione precisa, quasi un ringraziamento, anzi una forma evidente di gratitudine nei confronti di alcuni poeti stranieri che sono stati maestri e con i quali Scrignòli ha intessuto un dialogo ininterrotto facendo quello che un allievo vero fa nei confronti di un maestro vero: egli ripercorre le parole di Eliot, di Char, di Celan, di Apollinaire e Kafka in un suo personalissimo quaderno di traduzioni, che sono inevitabilmente e doverosamente anche tradimenti. Tradurre, in fondo, significa accostarsi a un testo per portarlo dalla nostra parte, significa quindi sottoporlo a una verifica, alla verifica delle nostre ragioni che trovano in un’altra lingua una dizione delle cose che si vuole fare nostra esercitando la libertà anche di reinventarle, non solo le parole, ma le cose stesse, correndo il rischio che siano loro poi a reinventare noi e la nostra vita.
Le prime prove del giovane Scrignòli, da Notiziario tendenzioso del 1979, fino a Qualcosa di illune del 1984, mostrano chiaramente come questo match con alcuni poeti che costituiscono una sorta di riferimento continuo, lasci i suoi segni: troviamo qui, insieme a una specie di sfacciataggine giovanile, allo sberleffo d’impronta quasi neodadaista, la temperie di una poesia in cui le parole si rincorrono per assonanze e consonanze, in cui spesso il disegno e il significato sottostanno a una verve funambolica, a una vena sperimentale che sarà sicuramente utile al secondo Scrignòli, perché gli consentirà di prendere la distanze da un linguaggio paludato che altri invece frequenteranno e frequentano ancora oggi.
Nel 1991, con Le linee del fuoco, la poesia di Scrignòli assume un andamento che sarà sempre più poematico e che ritroveremo da qui in poi in tutte le sue opere fino a Vista sull’Angelo del 2009 e che vedrà alcuni elementi, alcune figure ritornare come protagonisti di questo lungo itinerario alla ricerca di una dizione delle cose che si accompagna a uno sguardo interrogante, a un’ansia di comprensione e di pensiero che costituiscono una sorta di basso continuo, quasi a riprodurre il suono dell’acqua che è spesso lo sfondo o l’orizzonte liquido dentro il quale si muove la poesia di Scrignòli, dentro il quale appaiono e accadono le cose e i gesti, le persone e le visioni. La forza di queste opere mature sta proprio in questa loro capacità di accettare la sfida dello sguardo, dal lasciarsi attraversare dalla domanda che ciò che lo sguardo incontra pone continuamente, dal farsi anche trasportare in luoghi e territori imprevedibili, non preventivati, ma tenacemente inseguiti, una volta che ci si è trovati a intravederli. Proprio in Vista sull’Angelo, forse, questa disposizione alla ferita, alla scoperta e all’accettazione dell’essere che viene dentro e oltre la parola, conquista una consapevolezza decisa e chiara: nel terzo testo di Senza ritorno, prima parte dell’ultimo volume di poesie di Scrignòli, si dice infatti che Si può rimanere sospesi sui luoghi/ mai visti della vita, là/ dove ogni parola è un’offerta/ o la caduta di un dono// l’esperienza patita/ di un incontro straniero e fertile. In questo ultimo libro si dice ancora: Per uscire dal mondo dobbiamo/ intuire decifrare tradurre/ tutti gli indugi del tempo. // Ma i miei fiumi hanno scelto/ la clausura delle mareggiate, hanno/ condiviso i misteri impazienti di Orfeo// e tutta questa libertà inquieta dove/ il pane è luce verticale. E quest’ansia di conoscere si conclude, anche materialmente nella sezione V di Vista sull’Angelo, e dunque anche nelle pagine finali del Regesto, con una sorta di ritorno alla casa, una casa abitata dalle figure che nel lungo viaggio sono state incontrate – quelle dei poeti e dei loro personaggi ; abitata dai personaggi che lentamente si sono costruiti nello sguardo e nella parola del poeta nel corpo a corpo con la realtà – angeli e creature d’acqua; abitata da tutte le cose che il fiume e il mare riporteranno indietro, riempiranno i cassetti, gli armadi, il cui legno ha venature che sono storie di un eroe precocemente rubato al tempo. Nella casa, l’acqua e il fuoco si danno appuntamento, la parola s’incendia: l’Angelo rimane seduto sul silenzio, con il suo sguardo affondato su questa terribile felicità. E’ l’ultima parola di questo lungo percorso, la felicità terribile di cui la poesia di Scrignòli cerca di dare conto; una poesia che sembra sempre più stare in compagnia di quei grandi maestri che il poeta ha amato; una poesia che, lasciandosi portare dalle acque del Grande Fiume, ha lasciato addosso al poeta, appunto, l’alfabeto infedele perduto/ a nord, un soffio antico// dolce trasumanar della vista/ su questa terribile felicità.
E noi con lui, con il poeta aperto al dono e all’offerta, disposto alla ferita, conquistiamo questo alfabeto infedele e gli siamo grati perché, con la sua poesia, ostinatamente ripercorre le anse del grande fiume dell’esistenza, inseguendo i segreti delle cose, mostrandoci gli angoli più oscuri e quelli più felicemente radiosi di un cuore in viaggio nel quale possiamo specchiarci.
Corrado Bagnoli
***
Bisognerà partire dai contributi che ogni uomo
ci lascia nascendo, per amare il nostro niente
cosí bene orientato. E non schernire l’idea
del paesaggio verbale: lo farebbe già Jean-Paul, e io
non saprei ricamarne i profili; bisognerà
gettare fuori dal pollaio l’intimismo
e dar da bere alle radici della brava eco:
come spiccioli di una meritata pausa
imbiancata con la calce della mia presa della Bastiglia.
E Bastiglia non è soltanto féminin: ho voglia
di credere in un mosaico di specchi,
in una suonatrice di musiques retrouvées
quale complice esoterica delle mie corruzioni.
Non volermene; credo che alla fine interesserà soltanto me
– o la paresi della mia memoria, se vuoi -
il comune discorso a due, tu ed io, tu e loro;
lo ricordo per l’assioma dominante
invischiato nel mio corpo da cartina tornasole, e anche
per lo sterrato della mia vecchiezza;
se verrà; e anche se non viene.
Voglio dire che conosco bene lo scaltro
proprietario della giullarata primaverile che tout-court
ci ha spogliati. Non avrò per questo
ingressi di favore
alle barricate del sessantotto e da tanto dico
che un camaleonte nudo inaridisce
la razza e non ha diritto a nessuna cura.
Peggio ancora toccherà all’ipocondria
della fantasia sottopelle, (sai,
come fosse un dispetto sessuale)
che è pur sempre una dichiarazione d’amore.
da Notiziario tendenzioso (1979)
*
Arriva e colpisce, non importa dove.
Colpisce. Cosí si rischiano i pensati figli
rovesciando lapsus e carni e miti precoci.
Per compensare le perversioni, diresti.
Rischiando la parodia e l’esodo
come chi nasconde nel ventre
il nesso tra gli indizî in lotta
e il seminabile.
(Forse è soltanto questo non volermi alzare.
Oppure è che non unisco a questa
assenza in sonnambula
nessuna corruzione tra le paure e le improvvise
evoluzioni. Le tanto care corruzioni
buone solamente per i vivipari
o per i germi che nascono già vivi.
Ma colpisce. E il suo segno rimane, pieno.
E la riproduzione in te di questo emblema
è cosí corrosiva dentro da smangiarmi
il coraggio alla sfida, mentre
l’idea di non volerlo cercare, di nasconderlo
pelle dentro pelle diviene già
cronico possesso).
da Lapsus? (1981)
*
Cosí va bene, andiamo
ora che le donne non parlano piú
nella stanza
andiamo a cenare con l’amico
dei leoni, il capo
dei capi
che vive nell’erba, laggiú,
vicino al sole, andiamo
a riprenderci il vento
per renderlo visibile mentre attraversa
e colora i capelli, mentre ci trasforma
in memoria.
Non temere
riporteremo qui il leggero
dei sonni viola
e il fuoco trasparente
che non brucia
affinché non sia soltanto di queste rose
il malbianco.
da Le linee del fuoco (1991)
*
Del guscio intatto di un uovo
trovato piú avanti nel vicolo per Athos
conservo, non visto, il peso
la linea odorosa appesa all’orizzonte
della parola, del rumore che non è nome.
Tienilo tu
ancóra per un poco,
appena di poco
sotto le palpebre.
da Libro d’acqua (1994)
*
Regesto, ossi
Non è il regesto di una conoscenza
sul viso notturno il lampo
che dal pomerio invita e cattura,
né qui un riverbero
può definire condizioni estreme
per il distacco.
Conoscere del fuoco
il calore in bilico sulla fiamma
è già rapirgli un segreto,
è toccare lo spiraglio
dove la voce svia
verso l’abbandono.
Cosí, tacendo ti parlo
anche di tutto questo:
del contagio di una piccola silenziosa
parte dell’occhio, un’iride quieta
che come vento largo ci sfiora
per un istante, un brivido
appena il tempo necessario per conoscere
la differenza tra voce e luce,
per riconoscere la pronuncia
di quello che siamo, di quello che vogliamo.
da Buio bianco (1999)
*
La timidezza del pavone
Di solito la differenza accade
tra mezzogiorno e un fiume
quando il sole corrode la pazienza
dei sogni e anche la strada si nasconde
dietro la sete di occhiali scuri
dove l’umiltà infinita delle muffe
insegue i sospetti dell’inverno.
Accade. E succede anche quando
seguiamo in silenzio la scia
di un aereo lontanissimo. Di solito
io riesco soltanto a immaginare
insegne sulle ali e vólti che salutano, tu
invece li vedi uno ad uno e unisci alle parole
i frammenti, gli spigoli perduti, avvicini
le vibrazioni delle ali
alle nuvole.
È una differenza leggera, breve
come la primavera di tutto. Eppure
basta a distinguere la timidezza del pavone
da chi conosce il rapimento di volare,
cadendo.
da Lesa maestà (2005)
*
Il centro dell’orizzonte
Se penso che c’è un centro
altero dietro il filo dell’orizzonte
è per ridare colore al bianco
dell’assenza. E intanto seguo
con disegni di matita morbida
la mappa del rifugio
dove ho nascosto il profilo dell’ombra
invasa da una rosa.
Per questo dico che amare
è seguire le tracce dell’ombra,
amare è proteggere non la rosa
ma tutto lo spazio
del suo ricordo.
da Lesa maestà (2005)
*
E tuttavia
per uscire dal mondo dovremo
intuire
decifrare
tradurre
l’angolo minimo di tempo dove
il pane è una luce verticale.
Si passerà da una porta assente
che si può immaginare dietro
le scale, in basso, all’opposto
del rosso che occupa le ore
per tutto il giorno. Il vecchio guardiano
conosce ogni passo, i lati insidiosi
eppure ripete
“Entrate entrate, poi
scendete sette scalini a destra.
Il luogo della fenice è un triangolo
vi accorgerete subito dove
conviene arrivare dove
non si dovrà andare”.
Si entra nel triangolo
e non si pensa a come uscire
se mai si dovesse tornare, o a fuggire
anche se nessuno dice da che cosa
ma è certo che accadrà
in un’altra parte del giorno.
da Vista sull’Angelo (2009)
*
C’è timore e ancora si sente
quando un soffio di luce convoca
tutte insieme le foglie
eppure
alla paura avvertita in aria i miei fiumi
preferiscono la clausura, scelgono
la grazia del gorgo, una grazia misera
da pioppo di golena, piccola
ma figlia di un’annunciazione
che mai si potrà compiere.
E quando a Praga sono le undici
e anche sopra l’ombra della mano
di Jan Hus sono esattamente le undici
allora la pioggia si fa fiume
e svuota il cielo, muove i tetti
li spinge adagio sulla riva della Moldava
e dell’Elba, e sul Tamigi e giú
sulle foglie della Senna. Poi
sul ponte piú antico ritorna pioggia
e aspetta il Po di mezzogiorno.
da Vista sull’Angelo (2009)
*
Per uscire dal mondo dobbiamo
intuire decifrare tradurre
tutti gli indugi del tempo.
Ma i miei fiumi hanno scelto
la clausura delle mareggiate, hanno
condiviso i misteri impazienti di Orfeo
e tutta questa libertà inquieta dove
il pane è una luce verticale.
da Vista sull’Angelo (2009)
***
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