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Corsi e ricorsi

Creato il 20 marzo 2012 da Tnepd

L’interpretazione dell’evolversi della storia come un susseguirsi di corsi e ricorsi è sovente attribuita a Giambattista Vico ma non escludo che molti prima di lui abbiano avuto il sentore che certi eventi e certe consequenzialità potessero avere un andamento ciclico. Resta da chiarire perché ciò accada e da verificare se la stessa architettura d’analisi possa essere attribuita ad ogni campo in cui avvenga un’evoluzione.

 

Corsi e ricorsi
In parole povere, Vico giunse alla conclusione antropomorfa che ogni percorso evolutivo comprende tre fasi, una fase infantile di spensieratezza, una adolescenziale di misticismo ed una adulta di consapevolezza. Nella sua analisi ogni fase contiene a sua volta momenti diversi che la avvicinano per poi allontanarla nuovamente dalla successiva in un andamento che potremmo definire al contempo crescente e sinusoidale – o più semplicemente ondulatorio – e non è affatto escluso che al termine del percorso non si possa regredire alla prima e ricominciare tutto da capo.

Nonostante non sia mia intenzione prendere le parole di Vico come oro colato, va detto che i fatti confermano le sue osservazioni come raramente accade in ambito filosofico o storiografico. Va inoltre tenuto in considerazione, a suo onore, che Vico operò in un’epoca travagliata. Visse tra il diciassettesimo ed il diciottesimo secolo, costretto a divincolarsi nelle maglie della censura vaticana, combattuto tra una tensione religiosa del tutto personale, un’attrazione naturale per le arti e le scienze ed i postumi di una frattura cranica incorsagli per una caduta in tenera età. Con queste premesse avrebbe potuto dire e fare qualsiasi cosa e tutto sommato ne sarebbe stato giustificato. Invece Vico sfoderò pubblicazioni e commentari quasi in ogni ambito dello scibile umano: filosofia, storia, arte, poesia, religione, etica e scienze appunto.

Per onorare la sua memoria scialacqueremo i minuti che seguono occupandoci di due argomenti d’analisi che Vico non ebbe occasione di trattare ma che certamente non avrebbe tralasciato se fosse stato un nostro contemporaneo: il concetto di piatto unico ed il jazz. Il nostro scopo consiste nel verificare se, effettivamente, anche su di essi si riflettano altrettanto luminose le conclusioni del filosofo napoletano.

Va detto che la gastronomia è colpevolmente sottovalutata dalla stragrande maggioranza della popolazione. Alzi la mano chi, di fronte ad un piatto di tagliatelle, si è mai posto la questione se la gastronomia sia un’arte o una scienza. Pochi se ne curano ed invece l’atto di riempire un piatto da portata è una delle azioni umane più importanti ed una delle più frequenti. La scelta degli alimenti, la loro preparazione ed associazione secondo il gusto, i colori, le proprietà alimentari, la presentazione sul piatto, la relazione sensibile con la salute e la soddisfazione psico-fisica dell’individuo sono solo alcuni dei riflessi del caleidoscopio di attributi lucenti che fanno della gastronomia una delle attività umane più preziose. Un argomento di tale portata merita perciò di passare al vaglio delle tesi vichiane.

In tempi remoti i primi ominidi si nutrivano in maniera molto simile a quella degli odierni primati. Più che scegliere, si pigliava ciò che capitasse a tiro, alla peggio lo si essicava per un pò. La presentazione era ancora ampiamente sottovalutata probabilmente a causa dell’assenza di piatti e stoviglie. Possiamo ben dire che in origine gli esseri umani dovettero optare per la formula del piatto unico in assenza di alternative.

Corsi e ricorsi
La fase infantile del piatto unico durò a lungo, finché non intervenne a turbarla – e solamente per alcuni – una nuova formula gastronomica, quella dei pranzi luculliani. Re, imperatori, nobili e papi, ciascuno circondato dai suoi immediati sottoposti, presero a far scempio di selvaggina ed ortaggi alla griglia, animati da una goliardia fanciullesca che oggi non può che far sorridere. Questa fase infantile della gastronomia si intromise nel corso della fase infantile del piatto unico e da quel momento tenne il passo, in competizione col suo predecessore.

Nei secoli che seguirono, punzecchiato dalla concorrenza di una gastronomia sempre più elaborata, il piatto unico evolse passando alla fase adolescenziale grazie all’avvento dei panini imbottiti e soprattutto della pizza, ma solo in epoche recenti ha raggiunto l’eccellenza di questa fase grazie ai fast food, le pizzerie d’asporto ed i bar per impiegati con i loro fantasiosi piatti tris e le insalatone guarnite.

Nel frattempo la gastronomia non si arrese, perfezionò ogni sua sfaccettatura e seppe guadagnarsi la predilezione di ampie fasce della popolazione umana. La tavolata con antipasto di affettati, pastasciutta, bistecchina, insalatina, caffé e ammazzacaffé era nata come prerogativa di pochi ma, sulla scia della rivoluzione industriale, divenne accessibile a molti. Ciò grazie alla parziale re-distribuzione di una ricchezza monetaria sempre maggiore, realizzata nel plusvalore derivante dalla crescente efficacia delle tecniche di spremitura delle risorse del pianeta. Col sorgere del ventesimo secolo la gastronomia dette quindi una severa spallata al piatto unico. Una tavola poco imbandita, anche nelle case della borghesia più modesta, divenne tabù e tale rimase fino agli anni ‘70.

Gli anni della grande ripresa del piatto unico furono gli anni ‘80. Il forcing fu favorito dall’accelerazione impetuosa dei ritmi esistenziali di ampie fasce della popolazione e dal progressivo accorciarsi dei cosiddetti tempi morti. La gente si accorse, dopo aver trascorso oltre un secolo con le gambe sotto al tavolo, di quanto potesse essere più rapido e molto meno dispersivo pranzare con un panino o un trancio di pizza. I primi timidi vagiti del nuovo millennio furono sopraffatti dai ruggiti assordanti del piatto unico in piena acne adolescenziale.

Nel frattempo la gastronomia avrebbe dovuto, per forza di cose, tornare ad essere privilegio di pochi ma ciò avvenne solo in parte. La novità che le impedì una doverosa contrazione della fascia di mercato fu l’intervenuta capacità dell’umanità di alimentare anche le attività comatose pur di non rallentare la produzione, ma di ciò potremo discutere in un altro momento. Urge un riepilogo chiarificatore.

Abbiamo detto che in origine tutti erano dei poveracci e tutti raccattavano quello che capitava. Questa fu la solitaria fase infantile del piatto unico. Con l’arricchirsi di alcuni sorse una prima fase infantile della gastronomia, quella delle gozzoviglie dei papi e dei re. Piatto unico e gastronomia elaborata evolsero entrambi ad una fase adolescenziale, a mio modo di vedere tuttora in corso. Con la rivoluzione industriale, la diffusione di un maggior potere d’acquisto nelle classi medie ribaltò gli equilibri (parliamo della parte del mondo detta occidentale) e l’eventualità di passare una buona oretta a tavola divenne una possibilità reale di cui molti approfittarono. In seguito fu quella stessa categoria di persone, la cosiddetta borghesia, a cambiar di gusto e ad abbandonare la tavola imbandita in funzione di un panino, un trancio di pizza o un piatto tris al bar. Sul perché ciò sia avvenuto è stato scritto molto e spesso a sproposito. Sta di fatto che ad oggi il piatto unico, nei paesi occidentali, sta surclassando la gastronomia elaborata il cui mercato è ridotto al lumicino. Possiamo perciò affermare che, almeno fino a questo momento, il concetto di piatto unico conferma la sintesi vichiana dei corsi e ricorsi storici. Attendiamo timorosi la sua fase adulta.

Corsi e ricorsi
Possiamo ora occuparci del secondo argomento d’analisi a conferma o confutazione delle tesi del filosofo napoletano, ossia il jazz. Definire la musica jazz non è facile. Potremmo dire che è jazz quando i musicisti suonano ed il pubblico ascolta tutto quello che non è scritto sullo spartito. E’ per questa ragione che, della musica jazz, non si ricordano gli autori ma gli esecutori. Chiunque potrebbe scrivere dell’ottima musica jazz. Basterebbe scarabocchiare quattro lettere su un foglio bianco e dire a Michael Brecker: “Improvvisaci sopra per favore.

Si dice che il jazz sia nato all’inizio del ventesimo secolo tra i neri d’America. Io sostengo – e vorrei dire d’averlo sempre fatto – che il jazz sia nato prima del resto della musica, in particolare prima della sua acerrima concorrente, ossia la musica scritta. Le prime clavate percussive ed i primi battimani dei nostri più lontani antenati che festeggiavano una caccia fruttuosa erano jazz. Le litanie sconnesse di una vecchia prozia al funerale del nonno sono jazz. Jazz, per come la vedo io ma potrei sbagliarmi, è tutto ciò che nessuno si sognerebbe mai di chiedere ad un altro di suonare e per questo non lo scrive. “Quello che suonammo sarebbe impossibile scriverlo e darlo da suonare ad un’orchestra. Per questo non lo scrissi.” disse non a caso Miles Davis dell’album Bitches Brew.

Come per il piatto unico in ambito alimentare, allo stesso modo il jazz monopolizzò quindi la fase preistorica della musica. Ben presto però l’essere umano sviluppò un linguaggio grafico adeguato a descrivere l’emissione dei suoni secondo la loro frequenza e durata. Grazie a ciò ed al sostegno smisurato della chiesa cattolica, la musica scritta prese il sopravvento ed i compositori surclassarono gli esecutori in quanto a popolarità. Farinelli, Paganini e Toscanini. Chi sappia citare un esecutore precedente a questi tre può ben dirsi un ottimo conoscitore della musica classica. Di compositori, anche un sordomuto saprebbe elencarne almeno il doppio.


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