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Corsopoli e modernità.

Creato il 23 dicembre 2014 da Lostilelibero
Baudelaire, nei suoi visionari rigurgiti decadenti, ne diede una sommaria spiegazione già a metà ottocento, ma non pensava, probabilmente, che essa sarebbe poi divenuta lo scenario che avrebbe caratterizzato, così radicalmente, anche le epoche successive. La modernità, diceva, è il regno: del transitorio, del fuggitivo, del contingente”. Un regno, quello moderno e post-moderno, che si è guadagnato il successo assoluto proprio perché ha saputo incontrare e canalizzare gl’istinti più meschini dell’essere umano. E’, insomma, il giusto scenario in cui riescono a moltiplicarsi il capitalismo senza scrupoli, l’individualismo privo d’individualità e il profitto dei “mezzi adeguati ai fini”, di cui si nutre la nostra progredita società contemporanea. Anche nel mercato del lavoro, il transitorio, sotto forma della sua ancella flessibilità, sembra essere l’unico sacro paradigma a cui sacrificare tutti gli altri, incluso l’uomo suo artefice. 
modernitàE così, come esiste un mercato delle vacche, dei pellami, del petrolio o degli ortaggi, oggi, conquista umanizzante per antonomasia, c’è pure un mercato del lavoro, della forza lavoro, degli uomini. Ma nel frattempo è stata abolita la schiavitù. Quell’uomo, suo “transitivo” accessorio,  diventa quindi sub-jectum sacrificabile, purché egli serva per alimentare il nuovo mantra della flessibilità! Una flessibilità che si risolve, a ben vedere, in farsa, quella dei corsi di formazione, di specializzazione, di perfezionamento…. Ormai, in tale cortocircuito logico, si viene costretti a “formarsi”, a “qualificarsi”, anche per lavori non qualificanti, tanto per versare il proprio obolo al meccanismo demenziale e “ri-formare” così, anzitutto, le casse degli organizzatori professionali di corsi. E’ strano, eppure sembra che i “lavoratori” debbano passare più tempo sui banchi di questi sedicenti corsi piuttosto che al lavoro per cui vengono “formati”. Obbligati ad una flessibilità che non è più neppure del lavoro, bensì solo dell’infinito tempo “formativo”, quest’uomo perennemente alla ricerca di una propria identità, viene pagato per non essere mai una persona “formata”. Rimane sempre, per dirla sommariamente con Pirandello, in cerca di un autore, resta a vita precario di sé stesso, instabile banderuola in balia delle dipendenze. Egli viene persino stipendiato solo per fare corsi, in modo tale che, seppur accidentalmente,  il solo lavoro diventi proprio quello di presenziare a questi costosi corsi di formazione professionale. Alla fin fine, benché rimanga sempre qualche gradino più in basso rispetto alla dignità del suo desiderata professionale, è  anche lui, come i lavoratori con la L maiuscola, un dipendente. Il gergo del democratico mercato del lavoro, in tal senso, certifica la “bellezza” di questa sudditanza: dipendenti pubblici, privati, dipendenti da sé stessi (le P.Iva), dipendenti dei corsi…. L’importante è sempre essere dipendenti, alla faccia della dignità del lavoro! E’ strano che in fondo a tutta questa brama di dipendenza ci sia infine solo il bisogno di un’indipendenza, anche se esclusivamente economica: l’obbligo di percepire un reddito (l’unica cosa che, ascoltate le retoriche bibliche, statali, socialiste, e dei papi “piacioni”, dà veramente una dignità!). In realtà, la libertà e l’indipendenza, come sapeva Pessoa, sono cose che hanno percorsi diversi rispetto a quelli piani che può avere invece il reddito: “sei libero se puoi allontanarti dagli altri, senza che la necessità del denaro, o la necessità gregaria (…) ti obblighino a cercarli”. Ma l’uomo, in questa sua discendente parabola, pare abbia scelto (in realtà si è fatto scegliere, passivamente senza colpo ferire) un "senso" diverso. Egli, sembra sostenere col suo operare, ha paura di tutto ciò che non è zavorra, che libera, che rende indipendenti. Non sarà forse un caso se, dopo il dovere dei corsi e del lavoro, adoperi il suo “tempo libero” per rendersi schiavo di nuovi bisogni, di altre dipendenze, di diverse soggezioni e passatempi.

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