“Radiopirata” di Francesco Carofiglio (Marsilio)
Si racconta la vita di provincia, ma certo Carofiglio non è il Tondelli di “Altri libertini”. Si parte dalla presunta celebrazione delle radio libere degli anni ’70, ma da quel punto di vista era decisamente più completo ed evocativo il “Radiofreccia” di Ligabue. Nella scrittura di Carofiglio sembra, casomai, prevalere il modello televisivo, quello stile da sceneggiatura di fiction di Raiuno, con un osare sempre “misurato” sia che si tratti di comicità o di dramma. Per non parlare della figura deus-ex-machina del prete hippy, messa lì proprio per accontentare un pubblico “generalista”(un colpo al cerchio e una alla botte) quei lettori che si emozionano con poco e che, ingenuamente, non sanno riconoscere a prima vista i tanti cliché narrativi che affollano il libro.
”Il paradiso non è un granché” di Arisa (Mondadori)
Probabilmente desiderosa di scollarsi di dosso la vecchia immagine di Orietta Berti del nuovo millennio, tutta famiglia e torte di mele, Arisa pubblica questa specie di mezza confessione della cantante di successo delusa che, per sfuggire alla macchina che costruisce il successo a tavolino, fugge dalla discografia e si dà alla vita post-hippy, tra triangoli erotici e sesso consumato ovunque. Sembra quasi che Arisa si sforzi di diventare, da tortellina che era, un porcellona in stile Melissa P. Il libro gronda sesso e scene hard, e anche se non tutte sembrano proprio spontanee e verosimili, la narrazione è imbevuta di un certo retrogusto di sincerità (non nel senso della canzone, ma in quello della voglia di mettersi in gioco in prima persona)e di confessione romanzata. Certo non si tratta di una grande scrittrice, né di un libro destinato a rimanere, ma apprezziamo gli azzardi di Arisa, il suo essere molto presente nelle pagine, e due o tre battute ironiche che strappano una tenera e affettuosa risata.
“Cavalli selvaggi” di Cormac McCarthy (Einaudi)
Il punto forte di questo romanzosta nella descrizione fedele ed efficace di un mondo tutto di uomini, virile, adolescienziale e immaturo eppure inequivocabilmente maschio. Il punto debole è che si tratta di una storia totalmente e inesorabilmente western, fatta di cavalli, fuochi nella foresta, bagni nudi nel fiume, scatole di fagioli, sparatorie, prigioni, fughe e ritorni all’ovile. Insomma, per apprezzarlo bisogna essere dei veri amanti del genere western. Ed io, ahimé, leggendo McCarthy ho scoperto di non esserlo.
“La vita oscena” di Aldo Nove (Einaudi)
Il libro trabocca dolore atroce e disperazione totale, e certo può scatenare in molti lettori la classica, naturale e sana reazione che tutti noi abbiamo di fronte alla sofferenza: fuga e rifiuto.
Ma a parte la scena della doppia ustione (magari anche vera, ma talmente eccessiva da risultare grottesca e da suscitare una risata, perché in letteratura, a volte, anche la verità va scremata e ridotta per non risultare paradossale), il libro è forte, efficace, va dritto alle ferite che tutti o noi, ci piaccia ammetterlo oppure no, abbiamo dentro.
“Tempi difficili” di Charles Dickens (Garzanti)
Tutti i temi cari a Dickens: la rivoluzione industriale, lo sfruttamento della forza lavoro, la povera gente, il carbone, la fantasia come antidoto al male. Ironia e dolore mescolati insieme. Come tutti i romanzi del Maestro manca un po’ della terza dimensione psicologica che sarebbe arrivata dopo con Tolstoj e Dostoevskij, ma resta sempre una lettura meravigliosa e più attuale di tanti best sellers contemportanei.
“L’amore è una cosa semplice” di Tiziano Ferro (Kowalski)
Avevo apprezzato moltissimo il primo “trent’anni e una chiacchierata con papà”, che mi aveva fatto scoprire un cantante e un uomo fino a quel momento ignorato o quasi.
Per cui ho acquistato questo secondo diario con entusiasmo e voglia di leggere ancora. Non posso dire di essere rimasto deluso, ma il secondo volume non ha l’intensità emotiva del primo.
Sarà che qui si racconta solo un anno in cui succede poco o nulla rispetto al periodo temporale coperto dal volume precedente, ma questa volta i quaderni di Tiziano non differiscono granché da quelli di un adolescente standard, e quindi, mentre si legge, se lo si fa con sguardo critico e non con l’occhio esaltato del fan, non si riesce a interessarsi a tormenti troppo comuni per finire dentro un libro.
Continuo ad apprezzare moltissimo la sincerità di Tiziano, il suo mettersi a nudo e la sua completa onestà. Ma stavolta la raccolta di riflessioni è assai più deboluccia ed annacquata.
“La macchia umana” di Philip Roth (Einaudi)
Roth è senza ombra di dubbio uno straordinario indagatore dell’animo umano e sa raccontare la vita in maniera encomiabile. Ma l’impressione è che in questo “La macchia umana” ci sia davvero troppo cervello e ben poco cuore. Un trionfo di intellettualismi, cerebralità, nozionismi accademici raffreddano il racconto, lo rendono lento, asettico e spesso anche noioso e duro da portare avanti.
D’accordo l’ambientazione scolastica, d’accordo i personaggi professori, ma il continuo riferirsi a letterati, filosofi, pensatori del passato risulta spesso stucchevole e non aggiunge nulla alla prosa.
Poi il grande scrittore resta grande, e certe pagine hanno una costruzione perfetta ed impeccabile, ma senza dubbio non è questo il romanzo che consiglierei a chi voglia approcciarsi per la prima volta alla narrativa di Roth, né penso che mi verrà mai voglia di rileggerlo in futuro.
“Versilia Rock City” di Fabio Genovesi (Mondadori)
Genovesi prova a raccontare il dolore e il vuoto con un linguaggio ironico, il gusto per il comico e il paradosso, ma il risultato non è granché. Ne viene fuori uno stile “simpa” che però non affascina e neanche diverte. Ci sono tanti echi di altri scrittori già letti (un po’ dell’immancabile Tondelli, un po’ dei cannibali anni ’90), ma tutto questo eccedere per raccontare il normale della periferia non convince e non cattura. Peccato.. perché l’idea di un romanzo sul “mare d’inverno” e l’altra faccia del “sapore di mare” alla Vanzina era un ottimo punto di partenza.
“Dizionario delle cose perdute” di Francesco Guccini (Mondadori)
Guccini è un simpatico, gioviale nonno che ci racconta il mondo della sua infanzia, per come era e per come lui se lo ricorda. Un’efficace operazione-nostalgia, per carità, ma davvero pochino per farne un libro e certo non degna della poesia e dell’arguzia a cui il cantautore ci aveva abituato.
Davvero sembra di sentire un nonno parlare. Solo che qui manca completamente il coinvolgimento emotivo e la partecipazione tipica di quando si sente parlare il sangue del proprio sangue.