foto: nottecriminale.wordpress.com
Roma – Ottavo capitolo del nostro viaggio nella guerra di mafie che sta insanguinando le strade romane da qualche mese. Dopo aver attraversato le rotte della camorra e della 'ndrangheta verso la capitale (i cui approfondimenti trovate a fondo pagina), scendiamo ancora più giù, attraversando lo Stretto di Messina per sbarcare in Sicilia. Ma partiamo, di nuovo, dalla Città Eterna.29 marzo 1985. Quartiere della Balduina. Una Fiat Uno di colore bianco si è appena fermata in via Tito Livio[1] e Mario Aglialoro, il conducente – che abita in un attico al civico 76 - ne è appena sceso quando gli uomini della Polizia di Stato gli mettono le manette ai polsi. Non era la prima volta che le forze dell'ordine tentavano di arrestarlo. Ci avevano già provato – qualche tempo prima – appostandosi in via delle Carrozze, nelle vicinanze di piazza di Spagna dove Aglialoro, che di professione fa l'antiquario ed è un esperto giocatore nel mercato immobiliare, possiede un altro appartamento nel quale gli uomini delle forze dell'ordine hanno sequestrato trecento milioni di lire in contanti insieme a litografie di Renato Guttuso e tele di Pompeo Girolamo Betoni, pittore toscano della fine del '700 che valgono, ciascuna, intorno ai duecento milioni di lire. Ma di Aglialoro, in quell'appartamento, neanche l'ombra.
Si sente talmente sicuro, a Roma, che – raccontano le cronache – quando gli agenti lo arrestano, l'antiquario gli chiederà come abbiano fatto a trovarlo. Si sente sicuro come fosse a casa sua.
Per quanto Roma sia diventata già dagli anni Settanta la sua seconda casa, l'anagrafe lo vuole nato a Palermo, dove l'anno successivo all'arresto sarà implicato nel Maxi-processo.
Scontro al vertice. All'anagrafe palermitana, infatti, il signor Mario Aglialoro è registrato con un altro nome, Giuseppe, e con un altro cognome, Calò. Lo stesso Giuseppe Calò – detto Pippo – conosciuto nel mandamento di Porta Nuova come “La Salamandra” o “il cassiere di Cosa Nostra”. La mafia siciliana, infatti, non solo lo inserisce nella Commissione[2] – l'organo direttivo della Cupola – ma mette nelle sue mani l'ala finanziaria, inviandolo a Roma a lavare il denaro proveniente dai traffici illeciti e dalle prime partite di droga.
Da Porta Nuova con lo stesso compito, ma in direzione Buenos Aires, Argentina, è partito anche un altro dei futuri “grandi nomi” della mafia siciliana: Tommaso Buscetta, detto “il boss dei due mondi”, l'ex amico diventato il grande accusatore dell'intera organizzazione.
Affiliato da tal Giovanni Andronico già nel 1945 - come scrive John Dickie in “Cosa Nostra. Storia della mafia siciliana” - e da subito inviato in America Latina (Brasile ed Argentina, in particolare), viene estradato dal Supremo Tribunale di Brasilia nel giugno 1984 dopo che i giudici Giovanni Falcone e Vincenzo Geraci lo hanno già incontrato, in carcere, proponendogli di diventare collaboratore di giustizia.
A convincerlo, dopo un iniziale rifiuto ed un tentato suicidio una volta rientrato in Italia, più che la possibilità di collaborare con la giustizia c'è la sete di vendetta. Pippo Calò, infatti, si macchia di un duplice “sgarro”: non solo avergli sterminato, in maniera più o meno diretta, quasi metà della famiglia (quella carnale, non solo quella mafiosa) ma anche – e forse soprattutto, secondo la logica mafiosa – aver tradito la “vecchia” Cosa Nostra per quella dei Corleonesi.
Dopo il primo incontro al Maxi-processo, i due tornano a scontrarsi a Roma nel novembre del 1993, in quella stessa aula-bunker che da qualche mese ospita anche Totò “'u curtu” Riina, arrestato dagli uomini del capitano “Ultimo” a gennaio di quello stesso anno, anche se il colpo ad effetto Pippo Calò se lo riserva per il nuovo millennio. Con una lettera ai giudici del processo Borsellino-ter che si tiene in quel periodo – il 2001 - a Caltanissetta, “La Salamandra” decide di dissociarsi da Cosa Nostra (che è comunque una cosa molto diversa dal “pentirsi”), dopo sedici anni di carcere duro e addossando tutta la colpa del periodo stragista al gruppo di Riina e famiglia(mafiosa).
Tra la dissociazione – peraltro primo e forse unico caso per quanto riguarda la criminalità organizzata, essendo questo un atto tipico solitamente degli ex terroristi – ed il mandamento di Porta Nuova c'è, per Calò, la creazione dell'Impero Romano di Cosa Nostra, che lo vede non solo diventare uno degli uomini di punta della prima “ala economico-finanziaria” dell'organizzazione, ma anche il fulcro su cui convergono – nella capitale – gli interessi più disparati, dagli “scassapagliare” più piccoli fino alla camorra di Michele Zaza e della “Nuova Famiglia”[3] passando per la P2 e, naturalmente la Banda della Magliana – dove Danilo Abbruciati ed Ernesto Diotallevi sono più che un semplice “collegamento” - e la politica.
Pippo Calò, dunque, per quanto figura di spicco di Cosa Nostra, non è tanto un “puparo”. Non è lui a tirare i fili di tutto. Pippo Calò, in tutta questa storia, è un nodo. Un gigantesco nodo nel quale entrano pezzi di storia italiana più o meno recenti, come l'attentato al rapido 904, l'omicidio Calvi e quello Pecorelli, la fase stragista e l'omicidio Moro (dove lo Stato, stando alla ricostruzione di Buscetta[4], si sarebbe rivolto ai boss con simpatie democristiane, Stefano Bontade su tutti), entrano i quartieri romani tirati su con il denaro ripulito dal narcotraffico e gli “accordi di non belligeranza” nel rapporto tra la politica, locale e nazionale, e le criminalità organizzate. Come quello, per esempio, che ha permesso di far diventare il Mercato Ortofrutticolo di Fondi – uno dei principali snodi europei – un vero e proprio feudo criminale.
Puntate precedenti
parte 1: Roma, finita la pax di "Cosa Nuova"?
parte 2: Roma, aperto il "laboratorio Cosa Nuova". Dagli anni Settanta
parte 3: Diplomazia criminale firmato Cosa Nuova
parte 4: Cosa Nuova. Canta Napoli e Roma risponde (col botto)
parte 5: Michele Senese, il "puparo" con l'accento napoletano
parte 6: Cosa Nuova. L'Aspromonte, l'ottavo colle di Roma
parte 7: Cosa Nuova. L'industria dei sequestri di persona
(8 - Continua)
Note
[1] Riciclava i soldi delle cosche. Sulla mafia sa più di Buscetta di Franco Recanatesi, Repubblica, 31 marzo 1985;[2] http://it.wikipedia.org/wiki/Commissione_(mafia);
[3] http://senorbabylon.blogspot.com/2012/02/cosa-nuova-canta-napoli-e-roma-risponde.html;
[4] http://it.wikipedia.org/wiki/Caso_Moro