Subito prima di entrare in uno dei siti memoriali di quelli che settanta anni fa furono lager, il turista medio si sofferma un attimo. Riflette, finisce la sigaretta, scatta una foto alla scritta "Arbeit macht frei", poi tira un respiro profondo e allunga la gamba per compiere il primo passo sulla ghiaia del raccapricciante circo di morte che è venuto a visitare.
Quell'attimo, quel respiro, assolve un compito fondamentale: serve ad alienare il turista rispetto a tutto ciò che sta per vedere. Serve a fargli percepire come estranea la mostruosità di uno sterminio per il quale anche il già pesante termine "genocidio" si rivela essere estremamente riduttivo.
L'uccisione di sei milioni di ebrei, a cui andrebbero aggiunti diversi altri milioni di persone tra omosessuali, zingari, disabili, prigionieri di guerra e oppositori politici, forse può essere definita genocidio; ma la lunga catena di processi volti alla spersonalizzazione dell'individuo fino a ridurlo in uno stato di disperazione e apatia tali che la stessa morte veniva spesso vissuta con indifferenza, quella no; la crudeltà dei carnefici, reiterata fino a che l'istinto di sopravvivenza non portava le stesse vittime a uccidersi tra di loro per poter mangiare un boccone di pane in più, quella no.
Quel respiro serve a togliere dalla testa al turista il peso della consapevolezza di appartenere alla stessa specie biologica degli aguzzini che hanno creato l'orrore in mezzo al quale sta mettendo piede, un peso non certo facile da sostenere.
Ed è così, nello spazio di un respiro, che si creano i mostri. I nazisti erano dei mostri, invasati da un'ideologia mortifera e inumana, i comunisti della Russia staliniana idem, e lo stesso si applica agli autori di tutte quelle azioni la cui violenza desta sgomento anche oggi.
Mostri: pedofili, terroristi, dittatori, mafiosi. È un mostro Mladic, che massacrò quasi novemila persone a Srebrenica, è un mostro Breivik che fucilò 76 ragazzi ad Utoya, in Norvegia: i mostri di oggi e quelli di ieri diventano tanti mattoni che nella nostra testa innalzano la barriera al di là della quale ci sentiamo al sicuro, la barriera del "io non sono come loro".
Cosa trasforma gli uomini in mostri? Ideologie deviate, sfrenate pulsioni animali, interessi economici? Purtroppo la risposta è assai più semplice e drammatica: per spingerci a rivelare la parte feroce dell'animale che è in noi, è sufficiente una giustificazione. La possibilità di sopprimere la coscienza che, plagiata dal senso di colpa socialmente indotto, ci urla "assassino", potendo risponderle "non è colpa mia", è tutto quello che serve per trasformare le persone in bestie affamate di morte.
È questa la tesi più estrema, e più inaccettabile dell'opera di Hannah Arendt "La banalità del male": che tutti noi in fondo non siamo così diversi dagli aguzzini, dai massacratori, dai torturatori che hanno segnato col sangue la storia dell'umanità. "Ho solo obbedito ai miei ordini" – forse ognuno di noi non vede l'ora di esercitare violenza potendo impugnare questa frase come scudo.
Durante il processo ad Eichmann, uno psicologo statunitense di nome Stanley Milgram, mise a punto un esperimento per dimostrare come la sottomissione a un'autorità riconosciuta possa annullare completamente qualsiasi senso etico o di colpa. Un soggetto consapevole e uno inconsapevole venivano apparentemente sorteggiati nei ruoli definiti come "allievo" e "insegnante": in realtà il soggetto inconsapevole veniva sorteggiato sempre come insegnante. L'insegnante doveva a questo punto porre delle domande all'allievo, e in caso di risposta errata "punirlo", premendo degli interruttori che davano una scossa elettrica all'allievo, il cui voltaggio cresceva ad ogni risposta sbagliata.
La scossa era ovviamente fittizia e l'allievo era un attore consapevole dell'esperimento, che simulava dolore e implorava di smettere mano a mano che il soggetto inconsapevole continuava a premere gli interruttori. Il risultato dell'esperimento fu la drammatica conferma della banalità del male: la sola presenza dello psicologo che diceva al soggetto-insegnante: "La prego, continui" era sufficiente (nella stragrande maggioranza dei casi) a far sì che quest'ultimo continuasse a porre le domande e a punire le risposte sbagliate, fino agli ultimi interruttori, sui quali campeggiava la scritta "attenzione, scossa molto pericolosa". Quasi tutti i candidati proseguivano l'esperimento fino a quando il soggetto-allievo simulava di perdere i sensi.
Oggi, quando si studia l'Olocausto, è tanto facile ricondurre l'orrore a un numero ("genocidio", "6 milioni"), e considerarla un'aberrazione troppo oscena per essere umana, ma è una fuga dalla realtà. Quello che davvero dovremmo fare, è sperare. Sperare che nessuno ci chieda mai di smistare i treni diretti ad Auschwitz e a Birkenau, perché se ce lo chiedessero, non ci sentiremmo colpevoli a prescindere dal carico di quei treni. Sperare che nessuno ci chieda mai di uccidere dei mostri, perché se ce lo chiedessero, non ce li presenterebbero come uomini. Sperare che nessuno dia mai una giustificazione alla crudeltà che tutti noi abbiamo dentro, perché noi la tireremmo fuori.
Luca Romano
@twitTagli
Nota di redazione: questo articolo è stato scritto il 20 giugno 2012 nell'ambito del nostro Speciale Maturità con il titolo "Pa-tema 2012: la redazione di Tagli svolge il tema storico della Maturità"