Magazine Diario personale
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Cosa vuoi fare da grande?
Da bambina me lo chiedevano continuamente, da un certo punto in poi a dire il vero, più esattamente da quando, iniziate le elementari, si cominciò a definire un’ attitudine allo studio. Avevo un linguaggio forbito a cinque anni, imparavo una parola nuova al giorno e la usavo fino al giorno successivo provando anche a contestualizzarla. Ero una scassacazzi a detta delle mie sorelle, ma giudiziosa per i grandi. Non avevo idea di cose fosse il diritto tributario all’ epoca, ma se mi veniva chiesto prontamente rispondevo: “il lavoro di papà”.
Poi alle medie venne fuori che avevo ereditato l’ orecchio di mia nonna (o quasi visto che lei è orecchio assoluto) e cominciai ad incaponirmi con la musica, a suonare. Questa fu una fase che durò a lungo che mi portai per tutto il liceo, alternavo le mie giornate fra libri e conservatorio e la consueta ribellione adolescenziale la ebbi comunque, eccome, combinando e scombinando rapporti per poi sfogarmi su un pianoforte. Velleità di bambina forse, che dovettero fare i conti con la realtà di chi per farti superare un esame ti chiede dei soldi. Mi congedai con un “no grazie” che comportò la fine di quel capitolo.
Cosa vuoi fare da grande adesso? -Eh, adesso proprio non lo so.
All’ università, almeno all’ inizio, le strade erano delineate: “Mi piacerebbe il sindacato oppure il giornalismo” dicevo. Sperimentai quindi sino a perdermi nelle materie: letteralmente. Fino alla fine. Mi sentivo onnipotente, credevo di avere il mondo in mano, di potere tutto.
La vita fa dei giri strani, ma se ti perdi ti riporta a te stesso. E ora sono qui, con un contratto in mano a chiedermi perché. Perché ho smesso di crederci?