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Costa Rica e Honduras, cenerentole affamate ai Mondiali del Brasile

Creato il 13 giugno 2014 da Eldorado

C’è un video che circola in questi giorni e che mostra l’allenatore della Costa Rica, il colombiano Jorge Luís Pinto, che incita i suoi giocatori negli spogliatoi. Il messaggio è chiaro: non dobbiamo avere paura, loro (Italia, Uruguay ed Inghilterra) sono stati Campioni del Mondo, ma oggi noi abbiamo qualcosa che loro non hanno: fame.

Qualunque sia il risultato finale dei tre incontri eliminatori che attendono i ticos, le parole di Pinto hanno uno sfondo tangibile. Le storie dei ventitrè convocati costaricani sono d’altri tempi. Dal giocatore emblema, Bryan Ruíz, con una gamba più corta dell’altra, sforzi e sacrifici per superare non solo il danno fisico, ma anche povertà ed esclusione a Johnny Acosta che tra una partita e l’altra raccoglieva caffè, a Keylor Navas, oggi eletto miglior portiere della Liga spagnola, ma che da ragazzino si tuffava nelle pozzanghere dell’unico campetto del suo quartiere, i costaricani sanno cosa siano sforzo ed abnegazione. Pinto conta sulla fame di questi calciatori, sul loro orgoglio e sulla tenacità, pregio che li ha portati dai campi improvvisati delle periferie o delle campagne, incastonati tra piantagioni e strade sterrate, agli stadi europei.

La Costa Rica gioca la sua quarta fase finale di un mondiale nel Grupo de la Muerte, un girone da capogiro. Tre squadre Campioni del mondo, sette titoli complessivi, talento da vendere (Pirlo, Lampard, Cavani, Rooney, Buffon tanto per citare alcuni nomi). C’è solo da imparare, dice Pinto, ma soprattutto non c’è nulla da perdere per la sua Tricolor. L’esempio da seguire è quel manipolo di calciatori che giocarono in Italia ’90. Sconosciuta ai più, quella Costa Rica sconfisse Svezia e Scozia e fece soffrire il Brasile, attirando l’attenzione dei media e dei talent scout. I suoi giocatori ricevettero i primi contratti per giocare all’estero: il portiere Luis Gabelo Conejo, famoso per le sue parate, finì all’Albacete, Medford al Foggia di Zeman (dove fece solo panchina), Cayasso allo Stuttgarter Kickers, Myers al Peñarol, Ronald González alla Dinamo Zagabria. Una squadra che aveva fame, appunto, e tanta, che sorprese e che fece parlare di miracolo calcistico.

Il destino dei giocatori costaricani è simile a quello dei loro colleghi dell’Honduras, l’altra squadra considerata la cenerentola del blocco latinoamericano a questi Mondiali. Ticos e catrachos hanno approfittato le occasioni che mano a mano gli si sono aperte nei campionati minori europei ed hanno conquistato con sudore e sacrificio quei posti che prima appartenevano ai giocatori locali. Gli honduregni, in particolare, sono diventati una presenza costante nel football britannico. Wilson Palacios ha giocato nel Tottenham e nel Wigan prima di approdare allo Stoke City. Per gli honduregni è un’istituzione, l’esempio di come il calcio possa rappresentare occasione di riscatto sociale ed emancipazione. L’Honduras è paese di grandi contraddizioni ed è soprattutto una delle nazioni con il più alto tasso di omicidi del mondo. Anche la famiglia Palacios, che il calcio nel sangue (nella spedizione brasiliana ci saranno anche i fratelli di Wilson, Johnny e Jerry) ha pagato il prezzo di una società violenta e disastrata. Nell’ottobre 2007 il minore dei Palacios, Edwin, un ragazzino di soli quattordici anni, venne rapito dai sicari della mara 18. Nonostante il riscatto pagato, Edwin venne ucciso ed il suo cadavere restituito solo due anni più tardi.  Il calcio, insomma, non è un’isola felice. È una possibilità, ma per migliorare le condizioni di un intero popolo c’è bisogno di ben altro.

Anche per l’Honduras c’è una nazionale da ricordare, quella di Spagna ’82, quando alla prima partecipazione alla fase finale la squadra pareggiò con i padroni di casa di Santillana e Camacho e con l’Irlanda del Nord. Non passò il turno, ma fece sognare una nazione che a quei tempi, oltre alla miseria, doveva fare i conti con le guerre centroamericane e gli squadroni della morte che facevano sparire gli oppositori al regime.

Le prove della vita, in Honduras o in Costa Rica, sono all’ordine del giorno e la fame, di fronte alle avversità, si fa più grande. Per chi è abituato alle prime pagine dei giornali, al glamour, ai contratti da favola  sarebbe un errore sottovalutare chi al calcio dà ancora quel significato primitivo che è origine della bellezza del gioco. Costa Rica ed Honduras cercheranno di ribaltare i pronostici e lo faranno con semplicità ed umiltà, gli ingredienti spesso dimenticati nella ricetta del buon gioco.


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