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Su Il conte Dracula di Jesus Franco sono state scritte tante cose, e tutte il contrario di tutto, un ottimo film, una pellicola incolore, un insulto a Stoker, l'unico vero Dracula su pellicola senza gli arzigogoli sontuosi di un Terence Fisher, e queste cose, per assurdo, sono tutte vere.
In Il conte Dracula vivono due anime: l'anarchia low budget delle produzioni del regista spagnolo e le ambizioni di essere un prodotto oltre la semplice exploitation, con un gusto più sofisticato di rilettura solo all'apparenza impersonale. Vedere questa pellicola del 1969, anche a distanza di anni, crea un grande disagio, soprattutto alla luce di quello che poteva essere sotto l'ala di una produzione più ricca: cani al posto di lupi, pipistrelli di plastica che si stagliano contro la fioca luce lunare, location miserabili e attori allo stato brado lasciati ad improvvisare distrattamente. Ma se si scava oltre la patina superficiale ci si ritrova un mondo affascinante, pieno di trovate geniali che sublimano il miserrimo con il genio sconsiderato di un artista che non accetta le facili briglie della trasposizione cinematografica di un capolavoro letterario.
Il conte Dracula stride, si contorce, come il suo Klaus Kinski/Rendfield chiuso in un manicomio, e cerca soluzioni, soprattutto visive, di grande eleganza. Se da una parte abbiamo sì un uso massiccio dello zoom, meno sciatto però di altre produzioni Franco, dall'altra c'è un'attenzione non disprezzabile per i luoghi non solo come meri scenari, ma veri protagonisti di un'opera dall'ammaliante fascino decadente. Ecco che i pochi soldi, l'ambientazione spagnola che simula mille luoghi diventando un non luogo dall'impianto di scenografia teatrale, diventano barriere invisibili da superare, portando nel cinema vampirico una mai così palpabile idea di morte assimilata alla vecchiaia. Il conte Dracula non è un capolavoro, non lo era 40 anni fa non lo è adesso, ma un'opera piena di difetti, la lunghezza, la mancanza di ritmo, ma con la magia di riuscire a far dimenticare il tutto man mano che prosegue con idee che saranno imitate, i baffi bianchi di Lee che diventano neri dopo essersi nutrito, ed altre che ti fanno pensare a cose più grandi di quello che realmente sono come il verso di un pipistrello che simula un neonato, lo stesso forse dato in orrido pasto alle tre spose diaboliche.
Christopher Lee interpreta Dracula in maniera antitetica al personaggio portato sullo schermo dalla Hammer. Non più una creatura diabolica, ma un vecchio pieno di ricordi che si attacca alla vita avvicinandosi alla morte, un personaggio certo lontano dal modello stokeriano pur ricalcandolo, ma affascinante senza bisogno di inventarsi sottotrame romantiche per incendiare il cuore di spettatrici, senza per questo nulla togliere all'irraggiungibile bellezza dell'opera di Coppola. Franco si censura nei nudi, ma la sua musa Soledad Miranda non è mai stata così bella, feroce e sensuale come qui, forse più che in danze di vampire lesbo, spinta sempre più verso una recitazione da vamp del cinema muto, irreale, atona, vicina ai fumi del sogno, in un orologio biologico che, da lì a poco, si spegnerà violentemente relegandola nei sogni immortali dei fan del cinema.
Ecco allora che tornano prepotentemente le immagini di un'altra opera imperfetta, ma affascinante, Tutto quel nero di Cristiana Astori, dove appunto si racconta in un capitolo l'incontro tra un aristocratico Christopher Lee e una apparentemente banale Soledad Miranda. Basta uno sguardo per accendere subito quel brivido che rendeva Soledad non una, ma l'unica, la sensualità che rendeva proibito anche un sorriso, l'ossessione che il cinema ricerca da sempre nel suo sguardo fallace.
Liberi anche noi di sentirci come lei Libre, in un film così imperfetto da diventare sublime.
Keoma
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