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Crescita o decrescita: questo è il problema!
Molti governi europei
oggi cercano ricette per stimolare la crescita: ma è davvero
necessario tornare a crescere? Secondo alcuni no.
Le teorie
anti-crescita, che affondano le loro radici nei movimenti
anti-industriali dell’Ottocento e che sono state riportate in auge
dall’economista francese Serge Latouche, stanno ispirando molte
persone ad invocare una sana decrescita. I sostenitori di queste tesi
affermano che ripensando il nostro sistema dei consumi sia possibile
vivere felici senza che aumenti il Pil.
Quello che dovremmo
fare è separare i bisogni essenziali da quelli
che non lo sono e i beni prodotti per soddisfare bisogni reali da
quelli fatti solo per generare profitto, ovvero i «commerci». Se le
persone, per esempio, anziché produrre beni inutili volti al
commercio e al profitto fine a se stesso, producessero semplicemente
quello che serve loro per sostentarsi, sarebbero meno dipendenti dai
cicli economici, dai debiti e dall’ansia di accumulare ricchezza. E
i Paesi starebbero in piedi senza bisogno di far crescere il Pil a
tutti i costi.
Questa prospettiva è molto affascinante e per
certi versi romantica, se non fosse che la distinzione tra beni volti
alla soddisfazione di bisogni cosiddetti essenziali e beni
commerciali non è così netta come si possa pensare (senza contare
l’inquietante scenario in cui qualcuno decide cosa è essenziale
per la gente e cosa non lo è). A meno di ridurre i beni essenziali
al mero consumo alimentare, molti bisogni fondamentali non si
soddisfano solo con l’autosussistenza. Se per beni essenziali si
considerano infatti anche l’istruzione, le scuole e la sanità
pubblica, i vaccini e le medicine, i trasporti e così via, allora
tutto cambia.
Perché tutti questi beni e servizi non si
mantengono con l’economia di sussistenza, soprattutto in Paesi,
come l’Italia, che non hanno materie prime da esportare. Si
costruiscono invece con i proventi delle attività commerciali e
industriali e le relative entrate fiscali; risorse che consentono,
appunto, di finanziare servizi pubblici e di supportare ricerca
scientifica, innovazione e progresso. Deve essere chiaro, quindi, che
decrescere non significa solo diminuire le ricchezze individuali e
fare a meno di qualche accessorio come il cellulare o l’iPad, ma
significa allo stesso tempo diminuire le risorse che lo Stato ha a
disposizione per tutte le azioni di redistribuzione, assistenza e
investimento per il futuro.
E’ chiaro: la decrescita non
danneggia tutti nello stesso modo e quindi non spaventa tutti nello
stesso modo. La scarsa crescita non è mai stata un gran danno per
l’aristocrazia terriera o quelle classi che possono contare su
rendite fisse e sostituire i servizi pubblici con servizi privati, ma
è un disastro per gli operai, i commercianti e la classe media, che
più delle altre hanno bisogno di servizi pubblici. Certo: possiamo
dire a tutte queste persone che tornino a coltivare la terra e a
badare da soli ai propri figli, insegnandogli a leggere a casa e
curando le loro malattie con le erbe del giardino. In fondo era così
fino a non molto tempo fa, prima dell’industrializzazione e delle
rivoluzioni tecnologiche dell’ultimo secolo e mezzo. Ma erano altri
tempi, difficilmente invidiabili: tempi in cui davvero c’era poco
altro a cui ambire al di là della sussistenza, in cui il bisogno di
crescere, studiare e viaggiare era privilegio di pochi, e in cui i
progressi della medicina e della scienza erano scarsi e lenti.
Basta
pensare che l’aspettativa di vita è rimasta quasi invariata dai
tempi dei Romani fino agli inizi del Novecento. E’ stato con
l’aumento dei commerci, dei grandi progressi economici, industriali
e scientifici dell’ultimo secolo, che si è più che raddoppiata.
Anche la storia recente ci offre numerosi esempi del ruolo della
crescita. E’ stato grazie all’apertura e alla crescita economica
che la Cina ha potuto, nei soli vent’anni tra il 1981 e il 2001,
dimezzare la povertà nel Paese. E’ stato con la crescita economica
che il Brasile si è potuto permettere programmi sociali che hanno
strappato all’emarginazione milioni di famiglie. E persino nel
miracolo cubano degli Anni Sessanta l’alfabetizzazione e le
infrastrutture sanitarie furono sostenute da alti tassi di crescita.
Una crescita fittizia, pompata dagli aiuti della Russia, e che
infatti crollò miseramente alla fine degli Anni Ottanta. Tra il 1989
e il 1993 il Pil subì una contrazione del 35%. Ma la decrescita non
fu affatto felice. La crisi di fame e povertà che colpì la
popolazione cubana fu atroce. Solo con l’apertura al turismo, ai
capitali esteri e ad alcune forme di commercio e di piccole
iniziative imprenditoriali (e con una forte repressione del dissenso
che nel frattempo andava aumentando), Cuba è riuscita a resistere
finché non è arrivata la cooperazione con il Venezuela di Chavez e
poi con la Cina.
Perché pure i Paesi d’ispirazione
socialista, forse anche più degli altri, si sono accorti
dell’importanza della crescita economica. Come disse Deng Xiaoping:
«La povertà non è socialismo». Quello su cui molti Paesi
dovrebbero riflettere oggi, e la vera sfida che hanno davanti, non è
tanto come eliminare o ridurre la crescita, ma su quali basi
costruirla e con quali criteri utilizzarla e ridistribuirla. Perché
non tutte le crescite sono egualmente sostenibili nel tempo, e non
tutte sono gestite e distribuite nello stesso modo. Questo è il vero
nodo attorno al quale si gioca il nostro futuro.
Fonte: La Stampa
Dott. Fabio Troglia
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