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Se consumare fosse un mestiere come cambierebbe il capitalismo?

Creato il 28 marzo 2011 da Professional Consumer
SE CONSUMARE FOSSE UN MESTIERE COME CAMBIEREBBE IL CAPITALISMO?
Quando un uomo dall'intelligenza vivace si stufa di fare l'architetto, il redattore o il pubblicista e capisce che nel nostro tempo consumare è una specie di mestiere, allora può vestire i panni del 'professional consumer' e, avvolto in questo nuovo mantello, decidere di indagare la crisi economica, tentando di svelarne le cause recondite per superarla. Ma soprattutto può cercare di mostrare quel capovolgimento di paradigma che – aldilà della recessione stessa – ha intaccato il buon funzionamento del nostro capitalismo maturo.
Quell'uomo è Mauro Artibani, romano 60enne, autore di 'Professione consumatore' (Pdc Editori, 2009). Artibani è un prolifico blogger con un'idea alquanto originale e in apparenza bislacca: consumare è un lavoro, una professione fondamentale per l'intero sistema. Quindi, in quanto professionista, il consumatore va retribuito dalle imprese produttrici. Va pagato come se lavorasse. "Tutti noi consumiamo in ogni momento della nostra giornata, anche quando leggiamo un giornale o apriamo l'acqua del rubinetto in casa – dice Artibani a Nannimagazine.it – Due terzi del nostro PIL derivano dai consumi finali. Se smettessimo di consumare, semplicemente il Paese non andrebbe avanti. Diciamo, con un gioco di parole, che la nostra vita è spesa a fare la spesa, per cui è necessario uscire da un equivoco...".
Quale?
"La vulgata sociologica considera il consumatore un imbelle, uno stupido pressoché schiavizzato dalla pubblicità e dal marketing. Allora tutti auspichiamo che diventi responsabile, consapevole e dunque 'critico', nell'ottica dei sociologi. Se invece ci spostiamo sul piano economico, ci rendiamo conto innanzitutto che la regola ferrea della crescita rende la pratica del consumo indifferibile, improcrastinabile. In pratica, un obbligo".
E quindi?
"Il meccanismo produttivo dipende da noi consumatori e tale forza dobbiamo gestirla bene. Dobbiamo rivendicare il ruolo attivo che ci compete, rompendo la crosta sociologica e andando oltre l'essere meramente 'critici'. Da qui nasce la figura del 'professional consumer'. Questo nostro ruolo obbligato io lo considero un lavoro, un mestiere che deve essere in qualche modo retribuito. Tale retribuzione va ad aumentare il nostro reddito disponibile e serve a riequilibrare un meccanismo domanda offerta ormai malato, azzoppato dall'eccesso di capacità produttiva del nostro capitalismo che non può essere smaltito da redditi ad oggi insufficienti".
Ma il consumatore gode già dei prodotti che consuma. Come si ottiene un altro genere di beneficio?
"Mi spiego. Il consumo ha due funzioni chiave: da una parte, acquistando si trasforma il valore della merce in ricchezza; dall'altra, poi, consumando si sprona il meccanismo della riproduzione e si dà continuità al ciclo produttivo. Ci sono aziende, le più avvertite e sensibili, che già retribuiscono questa funzione. Per esempio, le televisioni commerciali: il loro prodotto è la conquista dell'attenzione dello spettatore che rivendono ai pubblicitari che a loro volta la rivendono ai produttori. Per fare ciò le tv commerciali retribuiscono, danno un reddito al consumatore, cioè gli forniscono informazione e intrattenimento senza fargli pagare il canone. Stessa cosa accade con i giornali 'free press' che sono gratis grazie alla pubblicità. Pensiamo a quelle compagnie telefoniche che ti fanno parlare gratis se ascolti messaggi pubblicitari".
Sì, ma siamo di fronte a benefici trascurabili per i redditi.
"Certo, ma bisogna capire che hanno più necessità i produttori di vendere che i consumatori di acquistare. La pratica del consumo è indifferibile per far crescere il PIL. E il profitto inteso come remunerazione del rischio di impresa, nel momento in cui il rischio non c'è perché i consumatori hanno l'obbligo di comprare, non ha più molto senso e può essere redistribuito ai consumatori stessi sotto forma di abbassamento dei prezzi per sanare lo scompenso del reddito insufficiente. Per i produttori, ciò che appare come rinuncia al profitto in realtà è un investimento, perché così rimane attiva la funzione del consumo, il ciclo va avanti, si migliora la gestione dei fattori produttivi che danno utili e le merci sono più competitive grazie ai prezzi più bassi".
In pratica siamo di fronte a un esito (prezzi più bassi) che viene raggiunto non con il libero mercato e la concorrenza, ma con una sorta di decisione pianificata, in qualche modo organizzata collettivamente dai produttori. Ma in regime di libero mercato, il rischio di impresa esiste perché il consumatore può scegliere le merci di Tizio invece che quelle di Caio o di Sempronio. Dunque, Caio e Sempronio rischiano. E proprio a causa dell'eccesso di offerta.
"Ci dovrebbe essere l'obbligo a rinunciare a parte del profitto per riequilibrare i redditi. Lo devono capire i produttori stessi che presto non ci saranno crediti o debiti in grado di surrogare i redditi insufficienti. La crisi del 2008 che ha visto collassare il capitalismo finanziario è nata proprio dall'esplosione del meccanismo del consumo fondato sul debito".
Chiede uno sforzo di pensiero collettivo e responsabile, forse utopistico, nella società del libero mercato schiava delle trimestrali di cassa. Oppure auspica una sottrazione di profitto ex lege. La sua è una visione socialisteggiante, forse applicabile in Cina, in un capitalismo di Stato, ordinato dall'alto, in cui il decisore politico può sottrarre direttamente risorse ai produttori per distribuirle alla forza lavoro che oggi è sottopagata e non alimenta la domanda interna. Più difficile attuarla in un'economia liberale e di mercato, in cui il decisore politico ha qualche spuntata arma normativa e regolatoria o la possibilità di un riequilibrio attraverso lo spostamento dei pesi fiscali.
"Non nascondo la mia formazione di sinistra, anche se oggi sono alquanto perplesso. Vede, è saltato il vecchio paradigma per cui il lavoro, l'occupazione crea reddito. Ormai è il reddito che crea occupazione e fa andare avanti il sistema. Eppure tutti continuiamo a ragionare in modo vecchio, superato. Oggi, in regime di offerta superiore alla domanda, non possono più governare i produttori. Sono i consumatori ad avere il coltello dalla parte del manico e devono rivendicare questo governo del sistema. Ecco perché provocatoriamente dico che bisogna entrare nell'era del capitalismo dei consumatori. È così che si va oltre la crisi".
Nelle sue parole si ascoltano gli echi di teorie come la 'decrescita felice' di Serge Latouche. E si pensa a fenomeni come quello dei Gruppi di acquisto solidale.
"Ecco, i Gas, aldilà dell'aggettivo 'solidale', sono gruppi di 'professional consumer' che mettono insieme una forza d'urto in grado di negoziare su prezzo e qualità del prodotto. E questo è il loro reddito in quanto consumatori che 'lavorano'. Io però voglio superare il concetto pedagogico o filantropico-ambientalista che sta dietro a termini come 'solidale' e 'felice'. E voglio pormi su un piano di convenienza economica. Se il consumatore che diventa 'professionale' recupera lo status di soggetto che in quel meccanismo 'lavora', ciò lo sottrae al discredito sociologico e lo mette in condizione di ripensare in termini collettivi il suo stare sul mercato con altri che lavorano come lui. In tal modo, il consumatore è investito di una responsabilità precisa: lui sa che non potrà più consumare un mondo già consumato. Dunque, risiede in ciò la convenienza di un consumo che sia davvero sostenibile". 
Intervista di  Ulisse Spinnato Vega  a Mauro Artibani
 

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