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La Scozia si unì all'Inghilterra nel 1707 attraverso l'Atto di Unione che di fatto sancì la nascita del regno di Gran Bretagna. Nel 1998 venne concesso un dirottamento di poteri e competenze a Edimburgo (Scotland Act), che istituì per via referendaria l'attuale Parlamento scozzese. È da allora, perciò, che sono aumentate le possibilità di una separazione in casa che, con la vittoria dei nazionalisti dello Scottish national party alle elezioni del maggio 2011, non sono più parse delle pretese velleitarie. Tutto, fino a quel momento – osservava l'indomani della vittoria dei nazionalisti The Guardian –, era ruotato attorno alla città di Aberdeen, la “capitale petrolifera d'Europa” che si affaccia sul Mare del Nord. Da sempre, infatti, il petrolio di Aberdeen è l'asso nella manica degli indipendentisti scozzesi, riottosi all'idea di non poter sfruttare in esclusiva una risorsa fondamentale. Ma Salmond non ha potuto fare a meno di stravolgere il paradigma e guardare in faccia la realtà. Il petrolio resta una priorità, certo, ma la «reindustrializzazione del Paese» promessa durante la campagna elettorale non può dipendere solo dall'oro nero, soprattutto perché le riserve – dicono – si stanno esaurendo. Per colmare i vuoti lo Scottish national party non ha mai fatto mistero di mirare alle nuove tecnologie e alle energie rinnovabili, cercando in questo modo di emulare Paesi virtuosi nei settori di riferimento quali Svezia, Danimarca e Norvegia. La questione è un'altra, però. Ciò a cui mira Edimburgo, sul serio, è l'indipendenza fiscale. Una sorta di “tesoretto” (a livello locale tra il 2008 e il 2009, come riferiva sempre il Guardian, il gettito superava di 1,3 miliardi di sterline la spesa pubblica) garantirebbe a detta dei suoi fautori un'iniziale autosufficienza in caso di scissione. Ma anche qui il condizionale resta d'obbligo. Stando ai risultati dello studio diffuso alla fine dell'anno scorso da Taxpayer Scotland, gli scozzesi rischiano in verità di ritrovarsi sul groppone un debito di 270 miliardi di sterline (tradotto in euro: 300 miliardi), vale a dire più del doppio del Pil annuale. Ancora una tegola: la retorica nazionalista – ed è qui che potrebbero subentrare dinamiche ostili a Bruxelles – ha sempre assicurato che la Scozia indipendente erediterebbe lo status di Paese membro dell'Ue. Circostanza non veritiera, a sentire il presidente della Commissione europea, Josè Manuel Barroso, e messa a dura prova dalla posizione ultima di Cameron. Per farla breve, non ci sarebbero margini di manovra: Edimburgo dovrebbe adempiere a tutte le pratiche necessarie per rientrare a far parte del club. E con i tempi burocratici previsti – cioè molto lenti – immaginare una Scozia fuori dall'Europa troppo a lungo è un azzardo persino per gli indipendentisti più incalliti. Specialmente alla luce di un Pil cresciuto, tra il 1997 ed il 2007, del 2% annuo contro il 2,4% complessivo del Regno Unito (per non parlare, appunto, del contraccolpo economico che subirebbe il sempre generoso governo di Londra, il cui intervento, alcuni anni fa, ha evitato in extremis il fallimento della Royal Bank of Scotland). E non c'è isola felice, in questo momento, che possa esaltare gli animi sempre meno entusiasti (secondo diversi sondaggi) degli scozzesi. In prospettiva, dunque, quanto gioverebbe al Regno Unito una "ristrutturazione" di tale portata? Un merito, in fondo, la crisi lo ha avuto. Quello di far aprire gli occhi ad un'Europa a geometria variabile e alla ricerca di una propria identità – culturale, economica e politica – che la ricollochi al centro degli scenari internazionali. Ma non può ogni volta pretendere di risolvere i problemi fuggendo da se stessa. Persino Cameron dovrebbe pensarci.
(anche su T-Mag)
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