Anna Lombroso per il Simplicissimus
Una volta prima dei tempi del pudore, dell’eufemismo, civilizzato, ipocrita o politicamente corretto, si sentiva dire negro, mongoloide, cieco, spazzino, paralitico.
E paesi sgangherati, straccioni, in ritardo o in regressione rispetto al pingue Occidente venivano liquidati con la condanna di “sottosviluppati”. Erano paesi dove ogni tanto, quando c’era, cascava una scuola tirata su coi mattoni della corruzione internazionale, dove era meglio bere l’acqua minerale, e se invece ti capitava di sciacquarti i denti con quella del rubinetto gorgogliante era preferibile tornare in patria per contrastare gli effetti dell’intossicazione, perché negli ospedali con c’erano i farmaci, i medici sconfinavano nel volontariato, giravano i sorci nelle corsie, si viaggiava in camionette al posto degli autobus, in pullman antidiluviani e che emettevano fumi neri e maleodoranti, e succedeva che fossero quelli delle scuole, o di pellegrini verso La Mecca, e così vedevi in Tv madri disperate come nelle pietà di Niccolò dell’Arca, in un tremendo urlo muto e rassegnato.
Erano posti dimenticati da un dio o da suo figlio più su di Eboli, più a ovest di Islamabad, più a nord di Brazzaville, rimossi dagli uomini di buona volontà e maledetti da quella manine della provvidenza o di Adam Smith che nell’elargire a pochi, lasciava cadere un po’ di polverina di benessere su molti, mentre modernità, progresso tecnico e scientifico, crescita illimitata scavavano confini sempre più profondi e invalicabili a limitare le geografie ricche e opulente ben divise dai territori della sete, della fame, della povertà.
Ecco, un bus proprio come quelli che vedevamo nei film sul cartello di Medellin, o sull’apartheid, o tratti da Lapierre, è volato giù da una scarpata, senza segni di frenata, perdendo pezzi ancora prima della folle corsa che ha travolto la barriera che avrebbe dovuto fermarla. Pellegrini italiani più sfortunati nella jella di quelli spagnoli condannati forse da un guidatore smanioso di dinamica velocità, sul treno del futuro, allegoria dell’impotenza dell’uomo di fronte al superamento aberrante dei limiti.
È successo in Irpinia, quella del terremoto infinito come la ricostruzione sempre appena cominciata, come le alleanze opache di politici, amministratori, tecnici, imprenditori uniti dal vincolo del malaffare e del profitto più infame. Una di quelle terre dove circolano i camion dell’export dell’immondizia, i pochi treni viaggiavano grazie ai ricavi delle lenzuola d’oro, dove il cemento arriva “tagliato” come la cattiva cocaina degli stessi manager della criminalità che detengono ambedue i business., così che i palazzi sono fragile si sgretolano, le condutture saltano, la strade si corrompono in buche maligne.
E infatti c’è un mezzo mal tenuto, inefficiente, che perde i pezzi, per viaggi di poveri ma destinati. Ma c’è anche un guardrail che cede, una barriera che non oppone resistenza, un ostacolo che viene scavalcato come da un cavallo pazzo in una pazza corsa.
È successo in Irpinia, ma ormai può accadere ovunque nella nostra Italia post sviluppata, impoverita e corrotta, immiserita anche nella reazione al lutto, come se gli choc cui ci hanno sottoposti avessero l’effetto di desertificare lo sdegno, di spegnere la vergogna, di annullare le responsabilità. Può verificarsi ovunque qui, dove la natura diventa assassina, la bellezza viene umiliata, il paesaggio subisce ogni oltraggio. Dove ogni pioggia è un’anomalia, “naturalmente” non sorprendente se il sacco del territorio è diventato profittevole, se l’equilibrio e l’assetto idrogeologico è un optional come la cultura, l’arte, il sapere. Dove i provvedimenti governativi per la difesa del suolo diventano ossimori e paradossi per creare un edificio, quello si resistente, di diritti edificatori, condoni, licenze a beneficio e privilegio di costruttori e interessi privati contro bene comune e diritti collettivi. Ormai Dio, o forse Wotan, si è fermato molto molto più su delle Alpi.