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CRONACHE DALLA FINE DEL MONDO di Franco Pilloni

Creato il 16 dicembre 2012 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

398px-Hieronymus_Bosch_089Cronache dalla fine del mondo 01: December, 3, 2012 – H 06:03 UTC

Cagliari, Sardinia, Italy – H 07:03

Placido si svegliò che era già morto, la testa zeppa di sogni sbiaditi. Si sollevò sul gomito per spiare oltre i vetri di una finestra senza scurini e senza tende.

La notte aveva partorito un’alba senza voce: se giorno fu, si fece largo in silenzio. La luce era intorno uguale. Non nebbia, ma una foschia vaporosa impedì di presagire da quale orizzonte potesse sorgere un sole.

Era l’ora in cui gli storni di Molentargius prendono il volo dai canneti e volgono sulle colline del Parteolla per riempire il gozzo di bacche.

Nessuno percepì fruscio d’ali, né i rochi richiami.

L’aria era pulita di voli, oltreché di nuvole.

Il cielo, a chi avesse alzato lo sguardo, sarebbe apparso come una parete sconfinata, calcinosa, stinta dal sole di mille stagioni che, se sfiorata, lascia traccia di sé.

Parve il silenzio contenersi in una enorme ampolla di vetro dove l’aria ferma, stantia, sapeva di muffa.

Strade, negozi, alberi, la città intera, tutto era silenzio.

Pareva il mattino di un ferragosto qualsiasi, con la gente che indugia ad alzarsi, ma ha fretta di andare. Invece era il tre di dicembre, Lunedì, giorno feriale di un anno pari a ridosso di anni importanti: a Capodanno si era brindato ai fasti nefasti dell’anno vecchio, col pensiero a scavalco sull’anno dispari che sarebbe seguito, quello della ripresa sperata, presagita, sognata ma solo probabile, del quale circolavano calendari incredibili. Agende e lunari su cui nessuno avrebbe mai annotato una sillaba perché il tempo, da quella mattina, era assente. Avrebbero continuato a segnarlo con precisione psichiatrica orologi atomici e digitali in tutto il mondo: inutilmente, come al mercato i cartellini del prezzo in un bancone senza merce. L’unico tempo rimasto era quello passato.

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Cronache dalla fine del mondo 02: December, 3, 2012 – H 06:07 UTC

Cagliari, rione Castello, Sardinia, Italy – H 07:07

Placido drizzò il busto, posò i piedi sul pavimento, lentamente si alzò per inerzia da consuetudine. Il capo gli ciondolò sulla nuca, colpa dei residui di sogno che perduravano grevi come rotami di condutture di piombo, si erano affollati alla rinfusa come stracci in una cesta di panni sporchi. Il soffitto luceva senza ombre come un lembo di cielo penetrato dentro casa. Non fece un tentativo per darsene ragione, la sua mente registrava le sensazioni come quella di un neonato, gli riusciva difficile collegarle fra loro e col vissuto che da qualche parte era riposto.

Scostò le sigarette sul comodino, sfilò l’orologio dal polso, lo ripose accanto al telefono cellulare.

Indossò la vestaglia a rovescio, infilò le ciabatte, uscì.

H 07:17

La strada era invasa da gente che si moveva a piedi. Le auto nei parcheggi, ferme.

I cagliaritani, uomini e donne, si erano riversati in strada con la testa china sul petto: nessuno parlava; nessuno che fumasse; non un giornale per le mani. Eppure il Cagliari aveva giocato in trasferta, a Udine, una partita importante.

Placido constatò che fosse l’unico in città che volesse e riuscisse a mirare il cielo.

Il poeta della casa di fronte era sceso sul marciapiede, lui pure in pantofole.

Nel modo più schivo, con malcelato pudore, spargeva pezzi di carta con su scritte due parole rimate: cura-paura, imbroglio-convoglio, pronto-sconto, …

Osservava trepidante dove finiva ciascun pezzo di carta, faceva due passi, seminava di nuovo altre rime: oro-castoro, o in alternativa concistoro. Verde-merde, …

Merde?

Bah!, forse stava al posto di perde, disperde… Era sempre così compìto!

Il poeta girò l’angolo, s’avviò spedito verso Piazza Palazzo.

H 07:27

I portoni dei condomini erano aperti, la gente ne usciva per non tornarvi più.

Da sottani saturi di polvere e penombre emersero figure tristi di vecchi, occhi perduti nel nulla, abiti inquietanti.

Tutti si riversarono nelle vie strette e nei vicoli, in salita o in discesa, con sguardi intenti al basalto della pavimentazione, silenziosi come processionarie che si affollano su e giù per i rami di un leccio a primavera.

Placido seguì il suo vicino che s’accodò a uno stuolo di altri poeti.

Tutti insieme gettavano foglietti con le rime: nessuno aveva accostato amore con dolore e neanche con terrore. Per rispetto forse, per prudenza, per scaramanzia.

Anzi, nessuno adoperò la parola amore o qualcuno dei sinonimi. E fu un avvenimento.

In piazza san Remy i rimatori s’arenarono, non riuscirono a procedere, tanto folta era la schiera in salita. Dirottarono i passi sul Bastione, dove il traffico era meno disorganizzato, da un lato delle scale si saliva, dall’altro si scendeva, benché qualcuno, a metà del cammino, decidesse di tornare sui suoi passi, verso su o verso giù, cedendo a pensieri fumosi, a molesti presagi.

Un gorgo di uomini, di donne, di bambini, compatti in muta preghiera, impedì lo sfogo verso via Garibaldi.

Ovvia la scappatoia nella discesa per via Regina Margherita, lo stuolo dei poeti vi puntò ondeggiando, impaziente come una serpe in un mattino di brina, s’infranse contro un’orda di pescatori scalzi che, ansimando, saliva di corsa. Gli artisti furono dirottati a forza in via Torino e da lì scesero, quasi rotolando, per via Porcile.

H 07:47

Giunsero in via Roma e stettero, pur continuando a gettare le rime per strada, muti e indefettibili.

– È un segno – Placido riuscì finalmente ad abbozzare un facsimile di pensiero – che in un momento come questo il popolo si riversi negli spazi della politica, occupando le icone del potere come mai ha fatto negli ultimi anni… o decenni…

Cercò di calcolare, approssimando, quante centinaia di anni il popolo sardo abbia evitato di confrontarsi col potere politico, virando per sentieri estetici, come tante volte egli stesso aveva detto e scritto.

Gli tornò in mente l’occasione più memorabile e misconosciuta, l’ultima volta in ordine di tempo che il popolo aveva cambiato padrone a sua insaputa, allorché l’Impero austro-ungarico “cedette” al Regno Unito l’Isola, affinché la “girasse” ai Savoiardi, non per meriti acquisiti ma per la loro debolezza intrinseca, preferita alla potenza della Francia e della Spagna: le carte furono firmate in Castello da un ammiraglio britannico e da un cugino portaborse dell’indispettito conte di Savoia, che avrebbe preferito la Sicilia e che mai avrebbe messo piede nell’Isola, non ostante il solo fatto di possederla l’avesse innalzato al rango di re.

Solidificò questi concetti lentamente, mentre scendeva i gradini attigui alla sede del Consiglio Regionale, osservando gli uomini e le donne che vi convenivano, transitando in salita e in discesa, senza ordine o meta precisi.

– Parrebbe che si ritrovino casualmente insieme, senza avere sentimenti, progetti o una qualsiasi affinità in comune – convenne con se stesso, piegando l’angolo della bocca nel sorriso più amaro della sua vita.

H 08:18

Nell’atrio del palazzo di vetro, uno di loro, un uomo piccolo e grasso, con cravatta scura e monocolo, un livido vistoso sullo zigomo destro, si issò sul piedistallo d’una scultura di Nivola, estrasse un foglio dalla tasca sinistra della giacca, aggiustò l’occhiale, lisciò la carta, lesse infine con voce stridula, ispirata:

– Ciascuno sta solo sul cuor della terra, trafitto da un raggio di sole…

“Ed è subito…” - avrebbe voluto, forse anche dovuto, continuare in coro lo stuolo dei poeti.

Non lo fece.

Furono le prime parole pronunciate in città.

Potevano essere le ultime.

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Cronache dalla fine del mondo 03: December, 3, 2012 – H 06:03 UTC

Brisbane, Australia – H 16:03

Da un diario privato gettato contro il semaforo dell’incrocio:

Imboccai Barbusa Street quand’ero in coda alla coda.

Secondo voi, un ingorgo in una strada a senso unico può non avere un senso?

La luce del sole color paglia rimbalzava mille volte tra le facciate delle case e la strada, dai tetti delle auto ai soffitti dei balconi, inondando di chiarore ogni dove, in una visione senza l’ombra di un’ombra.

Slacciai la cintura di sicurezza, aprii lo sportello di quel tanto che mi permise di posare un piede per terra, allo scopo di sollevarmi per vedere al di sopra dei tetti delle auto quant’ingorgo ci fosse ancora da soffrire.

Posai un lembo di cintura per terra per non scottarmi il piede scalzo.

Nell’auto a fianco, col condizionatore dell’aria che andava fuori giri, viaggiava l’unico altro individuo, oltre me, che in tutto l’ingorgo portasse giacca, cravatta e piedi nudi.

Gli penzolava un sigaro spento dall’angolo destro della bocca e aveva il cappello calato sugli occhi.

Era, così mi parve, A. Pinker che se la prendeva comoda.

Da quando conoscevo A. Pinker?

Otto, dieci anni. Forse più.

A che pro, in una giornata in cui il sole è di paglia, contare le stagioni dei successi mondiali di A. Pinker?

Si chiamava proprio A. Pinker o forse A. Pinker junior?

Forse sì, se non c’era già stato un A. Pinker senior.

Sembrò a tutti che qualcuno avesse disingorgato l’incrocio e si riprese a marciare.

Davvero aspiravo a diventare come il famoso A. Pinker?

Quando la mia auto si presentò al semaforo, questo si fece rosso all’improvviso.  

Fu allora che A. Pinker ritirò il cappello sulla nuca, si voltò, abbassò il vetro, mi salutò:

Complimenti signora! La trovo bene, ma non si senta arrivata!

Sorrisi: A. Pinker era addetto stampa all’ambasciata, un gradino esatto sopra di me, che ero stata nominata primo vice addetto stampa proprio quella mattina alle undici.

Ma perché ci salutiamo per strada, mentre dovremmo essere in ambasciata a quest’ora? – pensai con lo sguardo all’ingorgo che s’era formato a ritroso, tra me e il semaforo rosso. –  Non sarà comunque la fine del mondo!”.

Fu, questo pensiero, il mio unico, grande, irrimediabile errore di valutazione.

(NdR: Può anche essere che l’errore fosse irrimediabile, ma non si capisce perché uno che scrive il diario in automobile facendo la cronaca di un ingorgo, lo faccia usando il passato remoto. Fu una testimonianza postuma, lucidamente meditata, di chi aveva capito sin dall’inizio che il tempo presente non avrebbe avuto più senso?) .

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Cronache dalla fine del mondo 04: December, 3, 2012 – H 16:03 UTC

Hawaii (USA) – H 06:03

Sulla spiaggia ogni cosa era al suo posto, in ordine.

L’enorme recipiente, alto come un palazzo di sette piani, largo in cima come una camera da letto matrimoniale, era stato liberato degli ancoraggi e dell’involucro protettivo notturno e Kalaiana Roa, pronipote dell’ultima regina, sedeva nuda sull’orlo del bicchiere, riempito con acqua leggermente colorata, come una leggera terra di Siena.

Anzi, come un ottimo champagne d’annata.

Cavua Adda’ri, il fotografo più pagato al mondo, chiamato anche Ca-wurru, “Maestro di luce”, scrutava il cielo verso est, perché le riprese dovevano terminare prima che il sole, da dietro la criniera scura del Kawaikini, sollevasse il suo sguardo truce a riempire di ombre quella porzione di mondo.

Il Kawaikini, con la sua punta più elevata Waialeale, è quanto resta di più alto dell’antico enorme vulcano sottomarino trasformato in isola qualche milione di anni or sono. L’isola è quella di Kauai, l’ultima della fila verso est delle cinque più grandi in quel cantone di paradiso del tropico del Capricorno che risponde al nome di Hawaii, che spesso nell’immaginario è ritenuta una unica isola che ha per capitale una città dal nome musicale e modulato come Honolulu, che invece sta in una delle cinque isole sorelle, Oahu.

Cavua Adda’ri aveva scelto personalmente la porzione di spiaggia e l’ora.

In verità aveva anche modificato la grande coppa, Cavua Adda’ri, un flute dicono gli esperti, inserendovi dei petali color oro alla base del calice, in modo che vi si potessero nascondere due bombole con l’aria compressa e relativi boccagli per respirarla, oltre  ad un aggeggio che, sfiatando parte dell’aria, simulasse le bollicine. Non mancavano due maniglie che consentivano agli attori di aggrapparsi per restare nascosti sul fondo per il tempo sufficiente.

La scena l’avevano già provata una decina di volte.

Lei, Kalaiana Roa, adolescente alta e slanciata, color del rame, una chioma nera fluente, doveva immergersi scivolando nella coppa con i piedi in giù, la gamba destra piegata leggermente al ginocchio a nascondere la parte più intima della nudità, con i capelli che restavano indietro nella discesa come un paracadute o come la chioma rovesciata di un’avvenentissima medusa.

Prima di immergersi, gettata la rituale collana di fiori, baciava l’interno dei polsi, come gesto scaramantico, ma assolutamente per mostrare, a futura memoria, che era priva di qualsiasi accessorio. Pelle e basta.

Il Lui era anch’esso giovane e slanciato, un fotomodello ancora privo di popolarità (per risparmiare sul budget), biondo e tenero quanto può esserlo un gay.

Con i capelli ricci. Un po’ alla Di Caprio, per avere un’idea.

Sedeva sull’orlo della coppa, diametralmente opposto alla ragazza, anch’egli nudo se non per un accessorio al polso sinistro su cui dovevasi accentrare l’attenzione di chi avesse, per i prossimi dieci anni, dovuto assistere allo spot: un orologio rosso rubino che Lui doveva guardare un attimo prima di immergersi a capofitto, in modo tale che l’accessorio polarizzasse l’attenzione durante la discesa.

Il suo ingresso in acqua doveva avvenire tre secondi esatti dopo Kalaiana Roa, in modo che ambedue fossero ripresi insieme in una specie di rincorsa che potesse assomigliare ad un inseguimento amoroso, visto che lei teneva sempre la testa rovesciata a guardare lui che l’aveva seguita in mezzo alle brillantissime bollicine.

I ragazzi, dopo la fluente discesa nella coppa, dovevano sparire all’orizzonte, protetti dalle foglie d’oro. Giunti sul fondo, avrebbero dovuto allentare una chiavetta perché le bollicine aumentassero d’intensità per un momento che pareva durasse tanto, ma che era rapportato ai tempi canonici dello spot televisivo. Poi entrambi sarebbero riemersi simultaneamente, risalivano e si appendevano all’orlo della coppa, voltandosi a scambiarsi uno sguardo intenso.

Al polso di lei, adesso, risplendeva l’accessorio color rosso rubino: la prova di uno baratto?

La zumata sull’orologio induceva a crederlo:  la voce fuori campo avrebbe commentato: “Difficile resistere!”. .

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Cronache dalla fine del mondo 05: December, 3, 2012 – H 16:03 UTC

Alaska (USA) – H 07:03

Trip Gundurda si svegliò che sudava.

Anche stavolta aveva sognato il tricheco.

È sbagliato dire che lo sognava ogni notte perché, a quelle latitudini, le notti non sono trecentosessantacinque in un anno, ma molte, molte di meno e molto più lunghe.

Quando sognava il tricheco, immancabilmente gli veniva la voglia di pisciare. Anzi, a ben vedere, la voglia era doppia. Allora ripassò nella mente le azioni essenziali che serviva porre in essere, dato che voleva uscire dall’igloo per depositare i propri bisogni. Non che la cacca surgelata puzzi o sporchi più di una qualsiasi altra sostanza, ed è per questo motivo che i suoi avi defecavano tranquillamente al caldo, ma Trip era stato educato in un collegio di Ancorage, sino all’età di 15 anni. Posto a scegliere fra il lavoro in una segheria e la vita nomade della tundra, scelse l’avventura. A ventotto anni ne aveva più di quanto avesse creduto possibile sopportare.

Sbloccò l’uscita dalla neve morbida e uscì all’aperto.

S’aspettava di vedere il bagliore azzurrino del ghiaccio, invece l’orizzonte era pallido come se un sole dovesse sorgere da ciascuno dei punti cardinali. L’aria era tiepida; la neve pareva farina d’avena.

Pensò di controllare l’ora e la data, ma all’improvviso non gli parve importante.

Seguì un istinto primordiale e si mise in cammino, sempre dritto davanti a sé, verso l’orizzonte indistinto.

Ciò che colpì Trip non fu il silenzio, al quale era più che aduso, ma uno squillo insistente di tuba continua o un suono simile, prodotto da uno strumento a fiato come un armonium, che doveva essere perso da qualche parte della banchisa, invisibile eppure così presente, che gli rintronava nella testa con mille echi.

Parve a Trip di andare verso la sorgente del suono, tuttavia fu convinto che se ne stesse allontanando con la stessa velocità.

Il suono era un sol diesis, a dar retta all’orecchio destro, o forse anche un la o un si bemolle, a stare appresso all’orecchio sinistro.

Trip non sentiva freddo e aveva smesso di sudare. Tanto meno soffriva di altre impellenze.

Provò a ipotizzare che quel suono di tromba esistesse solamente dentro le sue orecchie dato che era difficile supporre un armonium a quelle latitudini o qualcosa d’altro che lo emettesse veramente, ma non andò oltre con la speculazione. (continua)

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Cronache dalla fine del mondo 06: December, 3, 2012 – H 16:03 UTC

Perù – H 11:03

Machu Picchu si sentì ancora più protesa verso le stelle, come fu nell’intenzione di chi la volle lassù.

L’ultimo dei turisti giunse al bivacco a quota duemila.

Sulle antiche pietre era rientrato il silenzio abituale.

Una nube color ocra montò sul pendio da nord-ovest e stagnò sopra la città diroccata.

Il sibilo del vento tacque e al gemito dei tronchi, agli scricchiolii dei rami, subentrò una nota bassa continua che pareva un pianto di donna, un attitidu* esausto, spezzato solamente dal brontolio di massi che rotolavano risalendo il pendio.

Le pietre squadrate, colorate di licheni e morbide di muschi, si mossero discrete verso il monte e si posero sulla cima, là dove le vollero i costruttori delle città divine.

Machu Picchu, la Città Vecchia, tornò perfetta dentro la nube giallastra.

Con la nenia, col pianto, sarebbe tornato anche l’Inca?

  • Attitidu è un canto sardo di dolore, un pianto espresso in versi, una nenia triste e antica.

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Cronache dalla fine del mondo 07: December, 3, 2012 – H 16:03 UTC

Caribbe – H 12:03

Nel Caribbe la luce venne dal mare.

La gente dei villaggi s’avviò sulla spiaggia.

I pescatori, tornati a riva a braccia dimentichi di barche e di reti, si misero in processione mischiandosi ai vecchi e alle bambine.

Camminarono in silenzio sulla rena, calpestando miliardi di granchi rossi mollicci che non si scansarono per difendersi, ma incrociarono le chele rassegnati.

La gente non si accorse di nulla, perché si trovò a guardare verso l’alto per capire da dove provenisse quel fruscio, che parve ai più il sibilo delle ali piegate di un angelo del Signore che si scaldava in picchiata, messaggero di buone nuove verso la gente del mare. Ai meno invece, specialmente ai vecchi sdentati che continuavano a masticare foglie, parve sì l’annuncio di eventi fatali, non importa se buoni o cattivi, perché lasciano tutti la loro cicatrice sulla pelle esposta degli uomini del mare.

E poteva essere l’avviso temuto e sperato con cui veniva notificata l’imminente fine del mondo.

L’interpretazione dei segni celesti, da sempre a quelle latitudini, ha prodotto roventi contrasti.

Ma non questa volta, perché il mondo, anzi, purché il mondo finisse uguale per tutti.

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Cronache dalla fine del mondo 08: December, 3, 2012 – H 06:03 UTC

Kirstch-bakkrina (Siberia) – H 00:03

(In effetti sarebbe dovuto essere il n. 01, ma per ovvie difficoltà di comunicazione è pervenuto con notevole ritardo. NdR)

Sperduto in Siberia, in un punto mai segnato sulle carte, nel raggio di cento chilometri dal luogo geografico identificabile con 82 gradi di longitudine est e 70 di latitudine nord, esiste un villaggio che vero villaggio non è, trattandosi di un semicerchio di capanne di pelli con lato aperto verso la foresta a sudest, il lato opposto verso la foresta a nordovest, e quelli intermedi in conseguenza, sempre verso la foresta.

Il villaggio si chiama Kirstch-bakkrina. Si chiama nell’accezione più propria del termine, in quanto i Kirstch-bakkrinesi si chiamano così fra di essi, ma nessun altro al mondo li chiama così o in qualsiasi altro modo e per una qualunque ragione.

I Kirstch-bakkrinesi questo lo sanno e lo ignorano nello stesso tempo: ciò permette che neanche la parvenza dell’ansia di essere o di apparire si affacci al loro orizzonte spirituale.

In quel periodo dell’anno, con la temperatura che raggela il fiato non ancora emesso, l’unico rumore percepibile era lo stridere dei passi sulla neve, diventata una lastra di ghiaccio, e il gemito degli alberi raggrinziti sotto la sferza del vento di borea.

Quel giorno però non c’era il vento, né le nuvole che ne indicassero eventualmente la forza e il verso. Senza contare che dire “quel giorno” è pari a dire “quella volta”, il famoso in illo tempore evangelico, perché in quel luogo e nella mente di quella gente, giorno e notte hanno significati sensibilmente differenti da quelli che noi rendiamo con queste parole.

In compenso è certo che tutti i Kirstch-bakkrinesi erano ancora accucciati dentro le tende a sonnecchiare, quando un rumore che parve da prima il passo felpato della tigre, poi quello caracollato dell’orso, infine la  corsa sfrenata di una mandria di rsuth, come chiamano il bos motus ginniensis, quel bovide lanoso altrove conosciuto come yak.

Diceva la leggenda, le cui radici si erano perse nel buio dei secoli della loro storia orale, che una mandria sterminata di enormi rsuth, con le corna ricurve e i lombi adiposi, sarebbe ritornata nelle foreste dei Kirstch-bakkrinesi per riempire i loro occhi con lacrime di gioia e le loro pance di fegato caldo saturo di sangue.

Quel giorno, concludeva la leggenda, avrebbe segnato la fine dei Kirstch-bakkrinesi poveri, punto.

La disputa plurisecolare era tutta nell’interpretazione del finale del racconto, dato che la maggioranza dei saggi e la totalità degli stolti vi intravedeva la fine della povertà per la tribù dei Kirstch-bakkrinesi, mentre alcune voci irritanti e sporadiche si erigevano come contrappunto al coro della maggioranza strepitante per spiegare che “quel giorno” per il popolo kirstch-bakkrinese avrebbe segnato la fine e punto.

Punto come basta, punto come stop, poiché nell’oralità non esiste altro punto se non quello alla fine della storia.

A fronte di quel rumore che s’era fatto assordante, le donne alzarono l’indice della mano destra imponendo il silenzio a chi già stava muto in ascolto, i vecchi rovesciarono il pollice indirizzandolo verso un punto della tenda per additare la provenienza della mandria, mentre i giovani maschi si limitarono ad inalberare il medio, in segno di sfida e di eccitazione.

I bambini inarcarono il mignolo, pregustando il sapore dolce del fegato caldo che sarebbe stato estratto dalle bestie ancora agonizzanti. Le bambine invece, non sapendo che fare, si succhiarono gli anulari, a turno, a volte l’un l’altra, non avendo alcuno potere per farlo, o un significato codificato per quel gesto.

Uscirono tutti insieme, con le dita protese, succhiate o inarcate, i centosessantasette Kirstch-bakkrinesi dalle tiepide capanne di pelli e s’incamminarono sognanti verso la fonte di quel frastuono che rimbombava dentro la testa.

Ognuno dei centosessantasette Kirstch-bakkrinesi prese una direzione differente, proprio verso la fonte del trambusto che li aveva svegliati.

Se fossero stati tredici in più, cioè centottanta, con un rapido calcolo si sarebbe potuto sapere di quanti gradi la direzione presa dall’uno differiva da quella del vicino prossimo o di quello più in là.

Ma tant’è: i Kirstch-bakkrinesi erano esattamente centosessantasette. Senza sconti per nessuno.

Fu il semplice accidente a far incontrare un unico albero della foresta a ognuno dei centosessantasette Kirstch-bakkrinesi: a ciascuno un albero diverso, più distante o più vicino al semicerchio delle tende, secondo le leggi della casualità.

Al proprio albero s’abbracciò ciascuno dei centosessantasette Kirstch-bakkrinesi, spingendo forte con i piedi sul giaccio, come se volesse spostarlo almeno di un centimetro oltre le radici, e ad esso si tenne stretto per una piccola eternità. Il tempo al pari dello spazio, l’eternità come l’immensità, sono concetti relativi, differenti in eguale misura come gli orizzonti di chi sta dentro un pozzo e chi siede su una collina: le parole restituiscono l’esperienza.

Il disgelo li afflosciò tutti, i centosessantasette Kirstch-bakkrinesi, ai piedi dei loro abeti prenatalizi, preservando le dita tese, inarcate o succhiate.

La notizia, se tale può essere considerata, non fece il giro del modo, neppure fra gli addetti ai lavori, né diede l’input per una ulteriore leggenda popolare da raccontare accosciati accanto ad un fuoco e da tramandare oralmente da una generazione all’altra, neanche fra i convenienti ai ciclici nostalgici raduni sulle colline di Ginocchio Ferito.

Il popolo dei centosessantasette Kirstch-bakkrinesi, o meglio la tribù dei centosessantasette Kirstch-bakkrinesi, si esaurì in una spinta collettiva contro centosessantasette alberi d’alto fusto casualmente incrociati, dai rami dei quali non riuscì a scuotere un grammo di neve ghiacciata.

Una tribù che, pur essendo di numero notevolmente inferiore, si distese a ventaglio per trecentosessanta gradi, come una seria indagine giudiziaria in un caso difficile da decifrare, così come enigmatico fu il frastuono rimbombante dentro la testa dei centosessantasette Kirstch-bakkrinesi.

Scomparvero nel silenzio, come nel silenzio avevano vissuto, i centosessantasette Kirstch-bakkrinesi, differenziati dall’unico dettaglio di un dito alzato, ciucciato o inarcato, che restituiva la categoria di ciascun cumulo, per il disgelo diventato morbido sotto l’albero, e la sua funzione nel gruppo.

Una indicazione trattata con scarsa ponderazione dai lupi sopravvenuti i quali, mancando le iene, si adattarono a ripulire la foresta dai resti dei centosessantasette Kirstch-bakkrinesi, e le loro teste dal frastuono immane dei rsuth e da ambigue leggende.

A questo punto, presumo che qualche lettore senta la tentazione di rientrare in se stesso e nelle proprie esperienze, per individuare i comportamenti immaginabili per la sua gente, allorché si fosse diffuso un qualche persistente suono nell’aria, nei pressi del suo vicinato o del  quartiere, se mai ha la ventura di vivere in città.

È giusto che ciascuno si prenda il suo tempo,  sciolga la fantasia,  eserciti il dono del vaticinio, se di questo l’ha provveduto la natura.

D’altra parte, ciò che è scritto resta scritto e può essere letto anche domani.

Mio dovere, e mi scuso se lo vivo come tale, rimane il riferire di alcune vicende lasciate a metà, qua e là per il mondo, e brevemente raccontare delle circostanze, queste sì impensabili, accadute nel mio villaggio che, nel tempo della storia, s’era chiamato inopinatamente Pompu.

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Cronache dalla fine del mondo 09: December, 3, 2012 – H 07:21 UTC

Cagliari, via Roma, Sardinia, Italy – H 08:21

                        – Ciascuno sta solo sul cuor della terra! – gridò allora l’uomo del monocolo, che si era issato sul piedistallo della scultura di Nivola, nel portico del palazzo del potere. Era diventato rosso in faccia, a parte lo zigomo destro che divenne più blu – Trafitto da un raggio di sole…

Non c’era poesia nella sua voce. Imperio sì, esaltazione anche.

Lo stuolo dei poeti tenne lo sguardo per terra e si dissolse, lanciando biglietti con rime baciate per tutta via Roma. Si confuse con i pescatori che tornavano giù per via Napoli, con i panettieri in grembiule bianco che sostavano sotto le palme, con i carrettieri che avevano dimenticato il carretto a casa e il cavallo in stalla, coi tassisti e gli extracomunitari in sciarpa e berretto sgargiante.

L’uomo piccolo e grasso rimase immobile sul piedistallo, col vuoto intorno.

Tolse il monocolo, lo pulì leggermente col fazzoletto da tasca, lo lasciò pendere dalla catena d’oro. Discese con un balzo, facendo fatica a fermare l’abbrivio.

Quando vi riuscì, stette immobile in una posa plastica, come una statua di Prassitele.

Nessuno avrebbe negato che s’era fermato a pensare. Qualcosa gli era sfuggito?

Attraversò la metà della via, fermandosi davanti alla palma sotto cui sostavano tre garzoni di bottega e una zingara grassa. Sistemò il monocolo, trasse il foglio da tasca e lesse con voce intonata, quasi sussurrando:

– Ciascuno sta solo sul cuor della terra, trafitto da un raggio di sole…

Chiuse la bocca, strinse le labbra fino a farle sparire e aspettò. A nessuno degli astanti tornò in mente e di fatto poco importò che quelle impeccabili parole, nell’ordine esatto in cui l’ometto del monocolo le aveva pronunciate, avevano fruttato un premio prestigioso ad un insegnante schivo e alla sua patria ingrata.

I garzoni guardarono oltre e sopra le spalle di quel piccolo uomo con lo zigomo blu a una processione di persone ben vestite, che procedevano chinate a raccogliere ciò che trovavano per terra.

L’omino grasso non si scompose.

Con voce paziente, atona, quasi rassegnata, ripeté:

– Ciascuno sta solo sul…

I garzoni s’erano piazzati in bilico sul ciglio di granito del marciapiede per esaminare dappresso la processione dei chinati che aveva preso le mosse da piazza Repubblica,* perché erano i padroni della dottrina.

La zingara tese la mano.

Davanti a tutti procedeva un signore robusto, distinto, con una fascia tricolore: faceva incetta dei fogli lanciati dai poeti. Ai due lati gli altri individui, tutti in grisaglie, s’allargarono a ventaglio a destra e a sinistra, si spintonarono e cercavano di accaparrarsi i foglietti con le rime, per ritrovare le parole perdute.

A Placido venne in mente la mandria dei porci del paese, quando Benito, il porcaro, li conduceva per ghiande. Gli si illuminarono gli occhi, perché un’idea è un’idea.  Anche se non hai con chi condividerla. Almeno sul momento.

Sorrise e si voltò a cercare l’omino dal monocolo: aveva già attraversato la mezzavia lato mare, a testa china.

“Proverà coi facchini”, pensò Placido, con lucidità e logica, mettendoglisi appresso con la solita curiosità per le cose fuori dagli schemi.

L’omino arrivò dritto davanti alla banchina del porto. Levò il foglietto di tasca, l’adagiò con cura sul granito, slegò il monocolo e lo posò sul foglio come fermacarte. Si voltò verso il palazzo di vetro, trasse un ultimo lunghissimo sospiro.

Con voce flebile, alzando il braccio destro al cielo con la palma verso l’alto e lasciandolo venir giù a corpo morto dopo tre secondi, recitò in un soffio:

E fu subito vespro!

Si voltò a dritta per un attimo, poi a manca, visibilmente per sincerarsi che l’ombra fosse al suo posto, ché non gli fosse d’intralcio in quanto stava per fare.

Senza trasporto, si tuffò all’indietro ed entrò senza spruzzi nell’acqua molle e verdastra del porto, che stagnante era e immota rimase, nonostante il pregnante gesto sacrificale.

L’ombra dell’uomo rimase spiaccicata sulla banchina, netta e scura come la frenata di un TIR che ha bloccato le ruote.

Placido tornò indietro e appoggiò la ciabatta su una panchina del porto per grattarsi il tarso: era importante cogliere il significato del gesto di quell’uomo, scoprire le motivazioni profonde della protesta, capire quale meccanismo psicologico inceppato avesse prodotto una volontà autodistruttiva così enorme e repentina, che aveva imbavagliato l’istinto di sopravvivenza che in tutti i viventi è il più forte. O lo era?

Alcuni, poeti, carrettieri o garzoni, di quelli che sostavano o che passavano sotto le palme, avevano notato il gesto inconsulto dell’omino che si era autoinabissato nelle catramose acque del porto per una privata e tardiva protesta contro la specie umana.

In cinque attraversarono la strada e si diressero alla banchina, ciascuno per proprio conto, senza badare al vicino di suicidio.

Alzarono in ordine sparso il braccio destro al cielo, lo rilassarono e si tuffarono all’indietro, senza dar peso alla posizione delle loro ombre. Fecero come se non le avessero mai avute. E fecero bene, o almeno così parve, in quanto le acque del porto non fecero una grinza. E neppure uno schizzo.

Cinque cerchi concentrici s’allargarono e s’intrecciarono fra loro. Ad essere ottimisti, ma ottimisti marci, si sarebbe potuto pensare a nuove Olimpiadi.

– Invece è la fine del mondo! – pensò Placido.

Fu contento di averlo intuito. Ma solo per un attimo.

Il ricordo dei tuffatori senza spruzzi lo gelò:

–   Cuddu cunnu! La gente segue le mode anche da morta!

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Cronache dalla fine del mondo 10: December, 3, 2012 – H 09:33 UTC

Cagliari, rione Marina – Sardinia, Italy – H 10:33

Placido assorbì con tutto l’essere le vibrazioni sottili che parevano emesse da una sola corda d’un violino tzigano. La nota sembrava che ballasse nell’aria immobile, confondendo i poeti.

Alcuni di essi si fermarono interdetti: provarono a infilare i bigliettini rimasti nelle tasche rovesciate, vuote come le loro menti.

La fine del mondo non fu qualcosa per cui fare le rime.

Gli uomini in giacca e cravatta che procedevano chinati per la via Roma batterono il pugno destro contro il petto, provocando un rumore sordo, percepito solamente dai medesimi, che invase loro la mente come un incubo in cui non si riesce a gridare, come succede ai pastori quando scorgono la volpe.

Garzoni e carrettieri, indistinti sotto le palme, andavano venivano sostavano, sempre a bocca aperta, cercando con gli occhi la fonte di quella nota vibrante.

A ziu Nanneddu parve  il canto di una cicala d’agosto, quand’essa s’aggrappa al tronco del cisto e sogna di un amore lontano. Inutile pensare di trovarla, perché il canto balla da un orecchio all’altro, confondendoti.

Ziu Nanneddu era arrivato a Cagliari perché sofferente alla prostata, ma si era fermato in via Roma.

Su un piedistallo di una statua di Nivola, sotto il portico del palazzo di cristallo, sostava un uomo basso e grasso e pallido, con un cravattino a farfalla e una caramella all’occhio destro il cui zigomo era arrossato con toni violacei. Trasse di tasca un foglio di carta piegato, lo lisciò e, con voce tremante, azzardò:

“Ciascuno sta solo sul far della sera …”.

“Ed è subito a terra!” – avrebbero dovuto chiudere gli astanti, che vi si trovavano per caso, fra essi ziu Nanneddu.

Nessuno ci fece caso.

Allora l’ometto diventò paonazzo per la rabbia o per qualche altra emozione che gli riusciva difficile manifestare diversamente.

L’ammaccatura sullo zigomo restò bluastra, infischiandosene delle emozioni della voce:

“Ciascuno sta solo sul cuor della sera!” – urlò l’omuncolo, ma la sua voce non giunse neppure a far l’eco sulle pareti vetrate del palazzo regionale, dietro le quali s’intravedevano delle figure ritte, rigide e mute, come un esercito di terracotta dell’antica dinastia cinese o un presepe affollato della migliore tradizione campana.

L’uomo basso grasso e pallido scese in silenzio dal suo piedistallo, attento a non calpestare la sua ombra, che però non si scorgeva nei paraggi. S’affannò a piegare il foglietto e a riporre la caramella nel taschino, con gesti misurati e consueti come quelli di un prete che pulisce, piega e ripone i sacri arnesi dopo la comunione dei fedeli.

Attraversò la strada, si pose di fronte ai garzoni-carrettieri che sostavano, andavano o venivano sotto le palme, sempre a bocca aperta, sempre in cerca dell’origine di una nota vibrante.

L’omuncolo provò con essi a suscitare emozioni, ancora inutilmente. Poi arrivò sulla banchina del porto, posò il foglio a terra tenendolo fermo col monocolo e rifece quanto già fatto poc’anzi. Senza spruzzi di alcun significato.

Placido attese solo pochi istanti i suoi emuli suicidi, che si presentarono in silenzio, spalle all’acqua verdastra del porto. Disegnarono cinque archetti nel cielo pallido, entrarono in acqua simulando i gloriosi cerchi olimpionici.

“Il tempo s’è fermato” – pensò Placido – “ed io qui sono l’unico ancora vivo. A tutti è concesso di vivere e rivivere le stesse azioni, ripetendole all’infinito, come in un libro ormai stampato su cui puoi rileggere a piacere la pagina preferita, ma non cambiarla”.

Placido si congratulò con se stesso, per aver mantenuto una lucidità di pensiero che gli parve carente in tutti gli altri.

Fu allora che vide la donna: alta, mora, sui trenta.

Camminava scalza a passi contenuti e lenti. Pareva immersa in un film al rallentatore, quando si mostrano gli “attimi fatali” istante per istante. Era curioso vedere esattamente come un piede umano poggia progressivamente sui quadroni di granito della via e poi  si solleva dolcemente, spingendo in avanti tutto il corpo.

Ormai la donna era a dieci metri da Placido e le sarebbe passata vicino quasi a sfiorarlo.

Il seno della donna si alzava prepotente dentro la camicia aperta sul collo e si abbassava lentamente, vincendo ogni logica di gravità terrestre.

Ricordò ziu Eugeniu Tuveri, il fisarmocista cieco che una volta sentenziò su un seno di donna che descrisse come sul punto di mettersi a cantare una canzone: unu giogu de tittas chi scappant a cantai, aveva detto precisamente. Placido osservò e convenne, ma la vista non gli suscitò emozioni o desiderio.

Su cunnu doxi!” – mormorò a fior di labbra – “Sono morto anch’io!”.

Era la prova provata della sua transazione nel mondo dei più.

Ormai ne era più che certo, poiché conosceva troppo bene se stesso: niente desiderio, niente vita!

La donna lo sfiorò e passò oltre. Poi si fermò. Restò pensosa forse tre minuti, che per l’eternità sono comunque poca cosa. Si girò e gli rivolse la parola:

“Ciao!” – gli mormorò.

Così parve.

Placido lo intuì leggendole solamente il movimento delle labbra. La fissò negli occhi: erano spalancati, belli, scuri e stupiti. Pareva che avesse rivisto un amico, un compagno di scuola, dopo tanto tempo. No, forse un fratello; forse qualcuno con cui stava e col quale si erano persi di vista.

“Dove andiamo?” – le chiese Placido, senza meravigliarsi di parlare senza voce, ma con tono semplice, caldo, complice come un bambino stanco della routine di paese, quando è pronto a un’avventura o a una sfida, in un eterno pomeriggio d’estate, allorché il caldo aggredisce la mente e la noia affatica la fantasia.

“Vieni!” – lesse sulle labbra di lei.

Insieme attraversarono la strada, camminarono sul marciapiede, girarono l’angolo, oltre lo spigolo di una casa, in uno degli incroci delle tante strade del quartiere della Marina che sono tutti diversi, ma  che a molti, anche da vivi, erano sembrati tutti uguali.

La donna continuò a camminare lentamente e Placido si accorse che anche lui camminava lentissimamente, senza provare impazienza, o fretta, o qualsiasi altra emozione o fremito dello spirito.

Il seno della donna continuava il suo gioco come a voler intonare canzoni: Placido l’osservava senza piacere, come a costatare una realtà di cui era consapevole da sempre.

Può dare emozione sapere che sei per sei fa trentasei?

Placido non sentì il profumo della pelle della compagna di viaggio.  Eppure doveva aver un profumo quella pelle liscia e vellutata, pulita sotto la camicia sottile e aperta abbondantemente sul collo.

Se questa poteva essere la situazione per un morto, Placido scelse di optare per la vita, nel caso in cui …

Egli stesso e la bellissima donna camminarono affiancati in una apparente comunione d’intenti e invece erano come due molecole d’acqua in un cristallo di ghiaccio: simili quanto si può, ma rigide ciascuna nella propria posizione, senza possibilità, né voglia di interferire l’una con l’altra.

Camminarono insieme, verso l’unica destinazione, senza che nessuno dei due si sentisse costretto, ma erano soli, semplicemente affiancati, distanti, maledettamente ognuno per proprio conto.

Loro due, Placido e la donna, erano anche tristi.

“Tutti sono tristi stamattina!” – pensò l’uomo con un sussulto di lucidità – “Siamo tristi perché siamo morti o siamo morti perché siamo tristi? Morte e tristezza … sono le due facce della nuova realtà”.

Arrivarono alla fine di un vicolo dove s’apriva la porta bassa di un sottano che era murata da secoli.

Scesero nella penombra e verso buio, sempre fianco a fianco, scambiandosi solamente lunghe occhiate, non di tenerezza come spesso lo furono fra un uomo e una donna, ma solo perché tutto era fortemente dilatato nel tempo, poiché nessuna emozione più influiva sul battito dei cuori.

Penetrarono nel buio e si tennero per mano, anzi per dito, visto che solo un dito della mano di lei ed un solo dito della mano di lui tennero il contatto nel buio.

“Buio, sino a che le pupille s’abituano” pensò Placido, che non riusciva proprio a perdere il vizio.

Invece il buio era totale.

Continuarono ad avanzare con passo rallentato, in direzione rettilinea. Almeno così pensò l’uomo. Invece s’accorse che girava intorno alla sua sconosciuta compagna, perché lei s’era quasi fermata, vinta da una subitanea intuizione. Comprese la donna che dentro quel buio non erano soli, ma altre presenze vagavano come loro, altrettanto decisi verso la meta del nulla.

“Ora” – ragionò la donna che al buio non poté comunicare a fior di labbra al suo compagno di viaggio – “se continuiamo a camminare in qualsiasi direzione, ci scontreremo di sicuro con altri. Al buio non saprò più chi sarà il mio compagno di viaggio”.

Ecco l’ansia, l’angoscia di sbagliare, di perdersi nel buio, di separarsi da quel pur sconosciuto compagno, casualmente affiancatosi nell’ultimo tratto di strada.

L’ansia di comunicare col proprio compagno, l’angoscia di inventarsi un modo nuovo per comunicare nel buio: era tale l’orizzonte attuale della sua esistenza.

Allora la donna strinse più forte il dito del suo compagno, al solo scopo di partecipargli un poco della propria ansia.

Non era angoscia, forse neppure ansia, ma sicuramente un lieve disagio quanto provò Placido sentendosi stringere il dito.

La sua mano era fredda, come la mano di lei: parevano, erano mani senza sangue, mani senza calore.

Placido provò a inventarsi gli occhi stupiti di lei: forse al momento guardava proprio dalla sua parte in un’altra delle sue lunghissime occhiate. Forse lei stava mormorando parole sulle labbra che non erano rosse ma …

Allora anche Placido strinse forte il dito della sua compagna di viaggio per significarle il disagio, l’amarezza, la contrarietà, la solitudine, … ecco, la solitudine che lo aveva assalito in mezzo a quell’antro di cui non concepiva i confini, buio come una bocca tenuta  chiusa.

Fu allora che Placido si fermò.

Si fermò per pensare, quasi senza accorgersi, senz’altro senza volerlo.

E fu allora che la donna alta, bruna, che camminava a piedi nudi, con un seno che voleva cantare canzoni anche al buio,… fu allora che la sua compagna di viaggio cominciò a girare intorno a lui con esasperata lentezza. Una lentezza così grande che una tartaruga, al confronto, poteva fregiarsi dell’appellativo di sprinter, una lentezza che a fare un solo giro, ci si poteva prendere le ferie e tornare.

“è difficile vivere, quando ti senti già morto!” – s’affaticò a pensare Placido.

“È difficile anche pensare, quando si è rallentati” – continuò a pensare l’uomo, che ancora non aveva perso del tutto quel vizio, usando a piacere del tempo eterno, quando in giorni normali si sarebbero consumate cento generazioni di corvi.

Voleva, doveva, aveva l’istinto … insomma si pensi ad un verbo che s’adatti alla situazione, perché voglia o volontà, dovere o piacere sono significati che mal si attagliano alla situazione attuale dei due compagni di viaggio.

Il problema, giusto per comprendere, stava tutto nel trovare un modo, un espediente che permettesse di comunicare i propri lenti pensieri l’uno con l’altra.

Sarebbero stati più fortunati se in vita fossero stati lombrichi di terra, ritenendo probabile una qualche invenzione di questi per comunicare in silenzio nel buio, senza suscitare emozioni.

–   Beati i lombrichi di terra, quando agli ultimi seguiranno i primi!

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Cronache dalla fine del mondo 11: December, 3, 2012 – H 06:13 UTC

Brisbane, Australia – H 16:13

                        “A Brisbane”  continuava, anzi continuò il diario dell’automobilista a piedi nudi, “il traffico s’ingorgò e si disingorgò a ritroso, senza lasciare che nessuno superasse il fatidico semaforo di Barbusa Street” contro cui lanciò l’agenda l’automobilista cronista, nell’ultima performance che le fu consentita.

Fu a metà pomeriggio (ma chi poteva dirlo?) che il cielo si fece scuro per un’ombra compatta, grigia come l’ovatta delle imbottiture delle spalline delle giacche maschili degli anni Sessanta del vecchio secolo.

Istintivamente ciascuno degli uomini e delle donne imbottigliati nell’ingorgo a ritroso, sollevò lo sguardo per osservare il cielo fattosi nuvoloso all’improvviso, ma tutti riconobbero ciò che il loro subconscio aveva tentato di far emergere solamente negli incubi.

Tutto quel grigio era pelo di canguro.

Il pelo di tutti i canguri massacrati nei secoli, messo insieme per l’occasione. E dentro quella lana abitava un unico canguro gigantesco, grosso quanto tutti i canguri ammazzati per farne scatolette di cibo per chihuahua e per soriani, per rottweiler e per i gatti randagi del Colosseo e di tutte le altre città metropolitane o di provincia.

Mancavano all’appello solamente quelle consumate dai turisti, nei ragù esclusivi dei ristoranti famosi.

Non ha senso chiedersi la ragione.

Un unico enorme canguro, dunque, con una sacca marsupiale aperta che risucchiava e buttava fuori, alternativamente, tutte le automobili di Brisbane, giusto di fronte all’incrocio semaforico di Barbusa Street,  dove la cronista scrisse un diario al tempo remoto.

Gli occhi non compresero l’apparizione con un’unica rapida occhiata e vagarono dall’alto in basso, da destra a sinistra, componendo panoramiche in cui non si riusciva a vedere il principio o la fine, ma solo un grigiore terrificante e lanoso, tale che faceva tossire, sputacchiare e balbettare insieme. Quel grigio, quel pelo che a ben guardarlo virava anche sull’ocra, un terra bruciata sbiadita che affliggeva ancor di più lo spirito, entrava e usciva da tutte le parti.

La signora del diario vide il suo amico A. Pinker (beh, amico non ancora, conoscente e collega, anche se di grado più elevato), uscire dal finestrino destro dell’auto, cercare di trattenersi perché aveva lasciato indietro il cappello e poi sparire in mezzo a quel bigio che odorava di muffa e di bestia.

La signora, la scrittrice di diari al passato remoto, cercò d’infilarsi le scarpe, giusto perché sentiva una forza che la spingeva, la sollevava, la proiettava fuori dall’auto, passando per il tettuccio apribile che aveva pensato di azionare per avere una visuale più completa di quanto accadeva.

Sentì, la signora, i peli ammuffiti e rancidi per l’odore di bestia che le entrarono nel naso e nelle orecchie, nella bocca che non riusciva a tenere chiusa, finché il suo corpo fu gonfio come un cuscino imbottito di piume d’oca alla prima notte di matrimonio.

Non riuscì neppure ad aver paura, perché il ribrezzo non lasciava spazio ad altre sensazioni.

Ma riusciva a pensare, lucidamente a pensare, ciò che tutti non poterono fare a meno di avvertire: il mondo, stranamente, finiva in silenzio.

Contrariamente a tutte le fantasie esposte in migliaia di film sull’argomento, il mondo finiva senza botti, senza crolli e senza urla (e anche senza fiamme, a quanto si appurò), ma nel silenzio più singolare. Un silenzio che si poteva ascoltare, se l’idea non fosse idiota, ma certamente percepire.

La diarista, l’ultima di una generazione che aveva scritto, visto, parlato, urlato, cantato, letto, ascoltato il meglio e il peggio indifferentemente, ebbe la sensazione di avere Mr. A. Pinker (o era A. Pinker j.?) a portata di mano, anzi di pelo. Di pelo grigio, s’intende.

Allargò se stessa, poiché ciò le era consentito in quella specie di sospensione in cui era immersa, agitò le braccia e le gambe (scompostamente come mai le era capitato negli ultimi trenta anni), aspettandosi di toccare qualcosa di più solido di una peluche infinitamente morbida e insinuante.

Antony Pinker!, gridò col pensiero, sperando che quella A punto Pinker stesse per Antony Pinker.

Andrew Pinker!, riprovò a pensare gridando, o a gridare pensando, che dovrebbe essere all’incirca la stessa identica cosa. Cioè un nulla.

Alex Pinker! Alan Pinker! Aaron Pinker! Arthur Pinker! Alfred …

Praticamente ci provò visitando tutte le probabilità che poteva implicare quella A punto Pinker, ma non ci andò neanche vicina, dato che Mister Pinker aveva avuto una nonna di Rieti che gli impose il nome di suo zio Amulio, pace all’anima sua!, giusto per distinguerlo da tutti gli altri Pinker del regno unito di sua maestà britannica (in altri tempi, in altri luoghi sarebbero servite lettere maiuscole, ma l’emergenza della fine del mondo non ebbe regole grammaticali) e di qualunque altro Pinker (e perfino Pinkerton, Pintcher, Panker, Panzer o Poker che fosse), perché solo tre furono gli individui col nome di Amulio e due di essi, per grazia di Dio, erano morti da tempo.

A. Pinker non udì il richiamo; se lo sentì, non rispose.

O, se rispose, la diarista che si scalmanava non aveva percepito la risposta.

Il mondo finisce senza legami, senza simpatie, senza richiami. Finisce e basta, lasciando a ciascuno se stesso, con le peculiari complicazioni. Fra le quali spunta immancabilmente e si fa strada, quella del lato oscuro dell’individuo, quello che con accanimento fu ricacciato nel profondo, misconosciuto, rinnegato, biasimato e ripudiato. Ora pareva una bandiera, l’unica bandiera che significasse qualcosa, uno stendardo al sole (si fa per dire, in quella bruma di pelo bigio-ocra, stantio e rancido), di cui bisognava farsi carico, se non proprio andare fieri. Ma chi lo ha detto che la mia bandiera è peggiore della tua?

Fu quello il segnale che, anche fra i morti, s’era accesa una lugubre rivalità dialettica.

Alla luce (si fa per dire, ancora e sempre) dell’ultima constatazione, anche la fine del mondo fu una occasione mancata. Se non una tragedia, certamente un disastro, nel senso di smacco.

Quasi una buffonata, per chi avesse coltivato il gusto del trasgressivo.

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Cronache dalla fine del mondo 12: December, 3, 2012 – H 16:23 UTC

Hawaii (USA) – H 06:23

Sulla spiaggia, si è detto, tutto era pronto e in ordine.

Sei telecamere disposte ai tre lati, tre ad altezza d’uomo, altrettante a quindici metri d’altezza, fermate ai pennoni telescopici e manovrate con telecomandi da altrettanti operatori posti sul caravan della regia, al secondo lato della scena, quello opposto al lato lasciato libero per non inquinare le riprese.

Un’ulteriore telecamera, la settima, da un pennone altissimo e ricurvo doveva provvedere alle riprese dall’alto.

L’aria era immobile. Pareva che tutta l’isola avesse trattenuto il respiro.

Era il momento esatto per iniziare le riprese per la pubblicità di un accessorio color rosso rubino, realizzato in una lega al tungsteno, da una ditta che sino ad allora li aveva realizzati quasi esclusivamente in pvc.

Dalla plastica al metallo più resistente al calore: il passo non era breve, né logico.

Forse che la parte del cervello che spinge la gente a spendere è quella più razionale?

O non è proprio alla parte emozionale dell’io che non si è abituati a dire di no?

Non si saprebbe neanche come fare…

Cavua Adda’ri guardò ancora una volta verso il cielo e sorrise.

Gli era parso che il sogno più grande, quello sognato cento volte nel sonno e mille volte a occhi aperti, stesse per realizzarsi. Forse era un incubo, ma quella luce limpida, color champagne grandi marche, d’un opalino chiaro, trasparente, pervasivo …

Sì, era la luminosità che sognava!

La luce che il nuovo giorno aveva predisposto solo per lui.

Bien, pensò alla francese per un attimo, forse avrebbe sfalsato un attimo i colori che aveva meditato di rendere, ma in fase di lavorazione, in fase di postproduzione, l’avrebbe certamente ridotta ai suoi desideri.

Suonò due volte il clacson del furgone di regia e dopo trenta secondi gridò nel microfono: action!

Il suono s’allargò lemme lemme nella spiaggia, aderì come una pioggia fina di miele alla pelle degli addetti e del folto pubblico che s’era sdraiato in silenzio per curiosare, dietro e al fianco del furgone, quindi, slavato e smussato, s’allontanò senza fretta e senza echi risalendo il costone fortemente forestato ed umido, insinuandosi nella vegetazione come un serpentello verde. Quando arrivò al Waimea canyon, nessuno più l’avrebbe chiamato suono, ma solo un sospiro del tempo che rimbalzò senza energia tra le pareti scure e profonde dove si confuse e si perse nella nebbia.

Le due sillabe del comando ac-tion! rimbalzarono come palline di caucciù legate insieme sulla pedana del caravan, scivolarono sulla sabbia, risalirono l’enorme calice facendo fremere l’acqua colorata in cui le bollicine si facevano strada risalendo a fatica.

Kalaiana Roa gettò all’indietro la collana di fiori con gesto lento, quasi rituale. Baciò in un soffio l’interno dei polsi accostati e scivolò nella coppa, piegando leggermente la gamba destra al ginocchio, le braccia distese in alto con palme aperte, imploranti, a dar maggior risalto al seno piccolo e arrogante. La chioma dei suoi capelli disegnò nel liquido una grande vu, una piramide rovesciata un poco più stretta di quanto era stato previsto. Il colore del suo corpo virò al verde, come quello dei bronzi di Riace appena ripescati, ma con riflessi abbaglianti di smeraldo. Affondò per sette metri e là cessò l’abbrivo.

Restò immobile come una lucertola immersa nella formaldeide.

Il fotomodello formato Di Caprio guardò l’orologio e s’immerse a testa in giù, senza sollevare uno spruzzo. Quasi raggiunse la sua Lei della finzione che continuava a guardarlo, senza che l’espressione degli occhi mostrasse affetto, desiderio, paura o indifferenza.

Occhi spalancati che non leggevano il mondo, che non parlavano al mondo.

L’intuizione non riuscì a provocargli alcuna reazione cutanea o d’espressione, prima che anche i suoi occhi si perdessero nel nulla, come quelli di qualcuno che guarda nel buio assoluto.

Ora le lucertole sotto spirito erano due: una di smeraldo, l’altra con riflessi di topazio.

Le mani protese una verso l’altra non si sarebbero congiunte in eterno.

Le bollicine erano cessate, non riuscendo la pressione delle bombole ad erogare più aria in quel liquido diventato una gelatina sempre più densa, fino a cristallizzare incorporando le bolle che più che d’aria parevano di luce.

Le telecamere ripresero la scena con le angolazioni predisposte, quale con primi piani, quale in campo lungo. Esaurirono il nastro e lo riavvolsero, continuando a far scorrere sui monitor della regia le immagini che ormai erano immobili agli occhi di nessuno.

Non ci fu chi gridasse uno “stop” nel megafono.

Nessuno si mosse a stappare le bottiglie di spumante, quello vero, che la produzione solea offrire a riprese ultimate.

Solamente i molti curiosi, stesi sulla sabbia dietro e ai lati del caravan della regia, avevano reclinato il capo all’ingiù, non per la noia, ma per l’eternità.

Anche l’oceano era assorto in pensieri da niente.

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Cronache dalla fine del mondo 13: December, 3, 2012 – H 16:23 UTC

Perù – H 11:23

Si sa che l’orecchio s’abitua ad una vibrazione dell’aria che gli conduce una nota continua e bassa. Insomma, dopo un lasso di tempo, il suono non s’avverte più.

Questo sarebbe capitato agli abitanti di Machu Picchu, o ai turisti, se vi fossero stati.

Si può dire che anche nella città sacra dell’Inca regnasse il silenzio, dato che non c’era orecchio umano a sentire la nota bassa e profonda e che, se ci fosse stato, si sarebbe abituato e non l’avrebbe percepito.

Un silenzio indotto, relativo, presunto, ipotizzato.

Fu l’Inca ad emergere dalla luce, perché il suo abito risplendeva d’azzurro,  in contrasto stridente col chiarore ocra dell’ambiente. Il suo viso luceva d’oro; i bagliori degli occhi si confondevano con i bagliori del disco che indossava intono al collo.

L’Inca alzò lentamente il braccio con la mano distesa nello spazio tornato senza tempo. Il gesto parve lo sforzo immane della volontà di un dio che concretizza la sua idea sulla Terra.

La luce ocra s’avvolse su se stessa, rotolandosi e infiammandosi. Si radunò lontanissima, all’estremo orizzonte del mattino, con i colori rosa e arancio dietro cumuli di grigio che progressivamente s’indorarono, fino a lasciar posto alla sfolgorante luce del padre Sole, che scandì un  tempo nuovo nella città dell’Inca e su tutto il mondo di là dal mare.

L’Inca alzò con gesto eguale l’altro braccio al cielo e di nuovo si percepì la nota bassa continua, quella che parve un’attitidu esausto, che progressivamente aumentò di vigore non nell’intensità, quanto nel tono. E quando il suono raggiunse l’estensione della voce umana, ecco apparire gli uomini, prima i vecchi dalle voci cavernose, poi i giovani, quindi le donne, i ragazzi e i bambini. Tutti nudi, tutti con riflessi di sole negli occhi, brillanti nella pelle e nei capelli.

E a mano a mano che apparivano, che si materializzavano nell’aria poggiandosi dolcemente al suolo, le loro voci roche, potenti, squillanti o i semplici strilli, si unirono al suono di sottofondo che oramai aveva assunto una composizione armonica a più livelli, modulando i bassi e gli alti con un ritmo fuori dagli schemi. E gli esseri appena ricondotti alla fisicità camminarono e saltarono sull’onda di quella armonia, che era la musica delle loro voci e fecero una catena doppia, tripla e quadrupla, girando intorno all’Inca che si era rilassato e teneva le mani all’altezza del cuore.

Quasi all’improvviso il vento mischiò il suo sibilo alla canzone del nuovo popolo dell’Inca, i rami aggiunsero i loro lamenti e, ultima, la pioggia impose la sua voce di scroscio su tutto.

Il popolo nuovo voluto dall’Inca alzò il viso verso l’alto, ricevendo un battesimo di purificazione.

Aprì la bocca a sorseggiare l’acqua piovana e batté le mani col cuore leggero di un bambino che da lontano vede il padre arrivare.

La pioggia continuò intensa sugli uomini e sulle cose, ripulendo i luoghi dal letame della storia e dall’odore dei turisti. E gli uomini e le donne, nudi e bagnati, fu popolo felice sulla terra, pur senza una legge, mancando dell’idea dei numeri e della scrittura, non allevando poeti o filosofi, ma vivendo solamente con un Inca in mezzo ad essi, per ogni giorno della loro vita.

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Cronache dalla fine del mondo 14: December, 3, 2012 – H 16:23 UTC

Caribbe – H 12:23

Sulla rena del Caribbe, la folla divenne moltitudine e il ronzio si rivelò per quello che era. Tutti avevano lo sguardo  al cielo, verso un cielo che aveva poco di blu, perché era lucido, grigio e pesante come il mercurio.

                        L’insetto spuntò dalle onde, grigio e lucente come il cielo. Una scolopendra gigantesca s’avviò sulla spiaggia. Risucchiò uomini, rena, donne, granchi e bambine. Li triturò passandoli da stomaco a stomaco, li amalgamò e li sputò di lato, sul bagnasciuga, ora a destra, ora a manca, nel suo procedere ondeggiante.

Nessuno pensò alla fuga o almeno a scansarsi, perché il fruscio fattosi atroce, li aveva paralizzati con lo sguardo all’insù. Nessuno si accorse dell’ecatombe, di quella che fu la distruzione di un intero popolo, di una quantità di genie, incrociate e bastarde, che avevano avuto secoli di sviluppo e di lotte. Soprattutto di lotte. Avevano lottato contro invasori, contro usurpatori, contro despoti e imbroglioni d’ogni specie. Avevano lottato soprattutto fra loro, fratelli contro fratelli. Sempre con una unica abbagliante idea fissa: siamo uguali, dobbiamo essere uguali. Liberi e eguali.

A vedere la poltiglia che il millepiedi infernale sputava obliquamente sulla battigia, non si capiva quanto fossero liberi. Certamente uguali lo erano diventati.

L’insetto vorace proseguì instancabile la sua missione pacificatrice per tutto quel giorno e l’altro ancora. Su quella spiaggia e su tutte le altre del Caribbe.

Il fischio terrificante seguitò per settimane e mesi, turbando i pesci che si rifugiarono nel profondo, fino a che tutto il Caribbe non fu amalgamato.

Si levò allora una brezza che assunse presto forza di un vento, sollevò onde le più gigantesche mai viste nel Caribbe, che non poterono essere testimoniate.

Le colline d’acqua spazzarono la spiaggia dalla poltiglia di uomini e granchi, la ributtò all’interno sulle pianure e sulle colline, sui prati e nelle foreste.

Tutto tacque. Anche il fischio.

Un popolo nuovo, fatto di uomini donne e bambini, tutti uguali per la prima volta, scese dalle colline verso il mare, attraversò le praterie e giunse sulle spiagge. Lasciò che la risacca bagnasse loro i piedi rosei di neonati e guardò i granchi verdi nascondersi nella sabbia. Una voce che parve provenire dall’alto gridò “Uà!”. “ Uà!”, rispose il popolo sulla spiaggia.

“Uà-uà!”, continuò la voce dall’alto.

– Ua-ua! – ripetè la folla. Un bambino cominciò a battere le mani e a ondeggiare sulle gambe.

Il popolo sulla spiaggia appese la sua anima a un raggio di sole e attese.

La voce dall’alto tacque per sempre.

Lo sconforto strisciò fra la gente come un’anguilla nel fango.

Una voce nuova, “Uà!”, s’avvertì, a sorpresa, in mezzo alla folla.

Seguì una pausa e due clac con le mani.

“Uà-uà!”, rispose la folla all’unisono.

Fece una pausa e tre clac con le mani.

Il popolo del Caribbe aveva ripreso a cantare. Questa volta, tutti uguali e felici.

Senza neppure sospettarlo.

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Cronache dalla fine del mondo 15: December, 3, 2012 – H 10:27 UTC

Cagliari, rione Marina – Sardinia, Italy – H 11:27

Placido ricorse alle estreme riserve del suo spirito e calcolò la traiettoria della compagna intorno a lui. Si mosse lentissimamente, all’unica velocità che gli fosse al momento consentita.

Forse passò una stagione, forse un decennio; alla fine le sue labbra incontrarono le labbra di lei.

Erano l’uno di fronte all’altra, nel buio. Avevano sbattuto l’uno contro l’altra, nello scontro meno violento che la storia avrebbe potuto accertare, se mai storia ci fosse stata ancora.

Il seno della sua compagna cantava canzoni per istinto, per inclinazione, per dote naturale, ora contro il petto di Placido.

La cosa lo sorprese, ma non provocò piacere.

Quel seno che ballava e cantava era freddo, quanto il dito, quanto le labbra che immancabilmente presero a muoversi al buio, per comunicargli frammenti di parole, rottami di pensieri.

Placido fece fatica a decifrare i movimenti in un alfabeto fatto solo di un moto bidimensionale, di schiudersi e serrarsi di quelle labbra contro le sue.

All’inizio lesse, forse volle leggere, s’illuse di leggere la parola “amore” o “amami”.

Lei ripeté più volte i movimenti, lenti e tremolanti, poiché sconnessi e spenti erano i pensieri. Che non erano neppure pensieri, ma code di un’idea, fantasmi di una manciata di parole monche.

Placido ricordò le interminabili occhiate di lei ed optò per quel sentimento di cui avvertiva maledettamente la mancanza, parendogli giustificato e plausibile un ritorno di emozioni al cospetto di tanto sentimento.

Allora le rispose “Ti amo”, tre volte.

Non si accorse di una qualche reazione di calore o di tremito, di lei o di lui, alle labbra o al dito che sempre tenevano stretto l’un l’altro.

Aspettò.

La donna mosse le labbra e ripeté “amore”. E poi ancora “amore”, “amore”.

I conti, pur in mezzo a tanto entusiasmo e aspettative, non tornavano.

Placido pensò ad un disco incantato, uno di quelli antichi, larghi, a settantotto giri, che giravano vorticosamente ma, alla fine, quando percorrevano circonferenze più brevi, si perdevano e ripetevano la stessa sequenza senza riuscire a uscire dalla pista per potersi fermare. Oppure…

Se fosse appropriata la definizione, in quello stato di caos lento e freddo, si direbbe che la mente di Placido fu folgorata da una rivelazione, la più banale, la più ovvia, la più maledettamente probabile che potesse mettere nella lista delle spiegazioni a quel problema: parlavamo due lingue diverse!

“Santu Doxi! Cunnu Doxi!”, ripeté per rafforzare il concetto.

Era un’invocazione antica al dio dei Protosardi, maschile e femminile al tempo stesso, di cui, come per Javè, era inibita l’invocazione aperta, ma solo attraverso il numero magico. Doxi, dodici, nella fattispecie santo per l’identità maschile e Cunnu per quella femminile, con riferimento esplicito alla potenza procreatrice universale, al fatidico imbuto di passaggio attraverso il quale era entrato ed era fuoriuscito il mistero della vita, la vita stessa. La parte più significante della Grande Madre.

“Proprio una turista doveva capitarmi!”, avrebbe riso Placido, in condizioni normali.

Anzi, ne avrebbe ricavato una barzelletta da raccontare alla moglie e agli studenti.

In altre circostanze, s’intende.

Invece era là, labbra contro labbra con una sconosciuta che aveva un seno aduso a intonar canzoni, ma non c’era proprio nulla da festeggiare. Neanche la voglia.

Il senso di angoscia si fece più acuto, profondo, esteso e devastante, feroce, insopportabile, tale da riempire per intero il suo orizzonte mentale.

Con riflesso condizionato, strinse le proprie labbra in un gesto di dolore, sottraendole al contatto con quelle della sua sconosciuta compagna. Contemporaneamente rilasciò la stretta con cui si teneva legato al dito di lei.

Placido fu l’unico, in tutta Cagliari, ad aver tenuto in serbo un ultimo coccio di pensiero sulla realtà, quando la fine del mondo era ormai consumata.

Se ad un morto è concesso di essere contento, di avere un pizzico di amor proprio, fu quella l’ultima sua emozione.

Aveva intuito che la donna da sempre sognata, con un senno aduso ad intonar canzoni, era solo la fine, la morte, il nulla.

Perché avrebbe dovuto essere diversa?

Forse che il fascino della fine non ha, in tutte le epoche della storia dell’uomo, indotto le menti più raffinate ad incontrarla di propria volontà?

La fine, come ultima occasione per soddisfare un proprio originale bisogno.

Saltare ad occhi aperti; vedere nel buio; fare un passo più in là, oltre il segnale del proibito.

Violare un tabù.

L’ultima azione che dà sostanza a una esistenza di inquietudine, di caparbia ricerca del senso del vivere.

Sapere di poter volare. Provare a volare.

Decidersi a volare.

Volare per sempre in compagnia dei propri pensieri.

Pensieri stupendi. Da strepito.

Tutti tuoi, tutti per te, Placido.

Come avere il copyright di te stesso.

Con l’io che diventa dio.

“M’hapu pappau su tempus”.

“Mi sono mangiato il mio tempo”, fu l’ultima scintilla di vita in un cervello che non sapeva morire.

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Cronache dalla fine del mondo 16: December, 3, 2012 – H 11:00 UTC

Pompu, un paese di Marmilla- Sardinia, Italy – H 12:00

Arega-pon-pon andava per i quattordici anni.

A chiunque l’aveva conosciuta  era  venuto da pensare che la natura fosse stata avara con lei, alla nascita.

Per cause mai accertate e semplicemente addossate ad un ipotiroidismo conclamato, la bambina non era mai stata mentalmente in linea con l’età anagrafica, anzi se ne era andata discostando, durante la crescita.

Nella prima elementare (niente scuola materna, non obbligatoria, per la salute incerta e la reticenza della mamma ad affidare a mani improprie quella creatura tanto bisognosa di affetto e di attenzioni) ancora stentava a parlare e, di fronte al cartellone in cui era riprodotta un’automobile, la bambina esclamò “Pon-pon”, battendo le mani per la contentezza.

Fu per questo che Arega-pon-pon di fatto costituì il nome con cui, dai compagni prima e da tutto il paese in seguito, venne identificata con assoluta precisione, pur senza pericolo di essere confusa con altre, perché era l’unica a chiamarsi come la santa di Decimomannu.

Ormai frequentava la quinta elementare e, grazie all’insegnante di sostegno, stava imparando a leggere piccole frasi.

Quel giorno di dicembre, Arega-pon-pon si era alzata tardi, perché la mamma non l’aveva svegliata alla solita ora per andare a scuola. La bambina (a stare all’età mentale), o la ragazzina (a dare retta al suo fisico) pensò semplicemente che fosse domenica, che la mamma fosse andata ad ascoltare la messa. Se ne stette ancora a dormicchiare, immersa tra sogni e pensieri, che in verità non differivano molto.

Quando ebbe fame, si alzò.

Fece le cose di tutti i giorni, nello stesso ordine preciso. Si lavò il viso col sapone, senza dimenticare le orecchie e il collo, tornò in cucina a scaldare il latte, lo sorbì zuccherato insieme a cinque frollini. Anzi, giusto chè la mamma non era lì a contarli come un doganiere, ripeté la dose facendo assorbire tutto il latte dai biscotti.

Tornò in bagno per lavarsi i denti e poi si cambiò. Indossò il vestito rosso della domenica e attese di sentire le campane suonare per la messa.

Intanto accese la tivù, senza riuscire a sintonizzarsi su alcun canale.

Il mondo era finito, ma nessuno si era preso la briga di avvertirla.

Quando si stancò col telecomando, uscì in strada e andò in chiesa.

Per via non vide anima viva.

La luce pallida del giorno entrava da per tutto, nelle lolle5, nei solai, nei ripostigli, anche dietro la macina dell’asino, dove costantemente aveva regnato la penombra.

Si accorse, senza emozionarsi o preoccuparsi, che quella luce non proiettava le ombre degli oggetti e delle persone, né davanti, né dietro, e neppure ai fianchi.

“Pazienza”, si rattristò la bambina, che si era affezionata alla sua ombra e si divertiva a giocarci quando era sola, cercando di sorprenderla con movimenti bruschi, inconsueti ed inattesi, “vuol dire che imparerò a farne a meno”.

Il portone della chiesa era aperto ed entrò.

Sui banchi, alcune inginocchiate, altre sedute, sostavano una dozzina di persone, anziane e vedove, che solitamente ascoltavano la messa anche nei giorni feriali.

Nessuno pregava, nessuno cantava. Nessuno predicava.

Il prete era seduto dove solitamente stava ad ascoltare le letture, con due chierichetti, uno per lato, che tenevano il capo reclinato.

Nessuno però leggeva le scritture più antiche o la lettera di san Paolo.

Si guardò in giro.

La chiesa pareva diversa sotto la luce pallida e diffusa che emergeva dai muri e dal pavimento più che dalle finestrelle poste in alto dietro l’altare e sul portone d’ingresso.

Le parve di aver riconosciuto sua madre, al secondo banco a sinistra. Proprio vicino al corridoio centrale.

Le si avvicinò in punta di piedi, ma lo stropiccio delle sue scarpe risuonò come un frastuono nel silenzio sigillato. Le arrivò di spalle e la tirò per la manica della blusa.

Era lei, la mamma: austera nella sua posizione composta, si ribaltò nel corridoio e stette come una sedia rovesciata, con le gambe e le braccia rigidamente protese.

Arega-pon-pon cercò di gridare. Aprì la bocca ma non ne sortì la voce.

Meglio così! In chiesa sono proibiti gli schiamazzi.

A fianco della mamma, una vicina di casa, zia Adelina Burranca: magra e minuta, teneva lo sguardo fisso in alto, perduto nel foro di luce che sovrasta l’abside.

Arega-pon-pon le sfiorò la spalla con la mano e zia Nina si ribaltò in avanti contro il banco.

Se la mamma pareva una sedia rovesciata, zia Adelina le parve una sedia appoggiata al muro come quando si adagiano quando si scopa il pavimento lastricato.

Arega-pon-pon non cercò neppure di gridare. Piuttosto porse l’orecchio al suono che pareva liberarsi dai muri di pietra e dal pavimento di antichi lastroni di trachite verde e gialla. Era un coro di voci, ora lo distingueva bene, un richiamo corale, disperato, ripetitivo, incessante.

Poteva essere il belato del gregge di Pobun, lo sfortunato figlio della regina Madua6 dell’antica leggenda?

Arega-pon-pon non resisté all’angoscioso concerto che le strappava brandelli di cuore nel ricordo dell’agonia delle povere bestie.

Uscì dalla chiesa barcollando, con l’idea di rifugiarsi in casa, che non era lontana, perché nei paesi tutte le case sono intorno al campanile.

Invece cambiò idea: cosa ci faceva a casa?

Il lamento delle pecore prigioniere la seguì sulla strada e non poté fare a meno di pensare ad altre pecore, meno fantastiche, ben più reali e conosciute.

A Prabanta7 dove pascolava il gregge di suo padre: ecco dove sarebbe andata.

Prese la strada in salita, senza che incontrasse nessuno.

(Scusate, ma vi siete accorti che questa è un’altra storia?)

Featured image l’evangelista Giovanni scrive il Libro dell’Apocalisse. Dipinto di Hieronymus Bosch (1505).

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