Gli esami sono finiti. Tutti a fare le foto alle bacheche dei quadri, e in qualche caso a mandarle su
Facebook. Tutti con la calcolatrice alla mano, a fare la media aritmetica dei voti. Perché l’ansia del voto è sempre presente, e sembra che sia l’unica cosa che conti. Gli insegnanti mi hanno valutato bene, male. Hanno dato tre decimi di voto in più a quello, a quell’altro. Quanti saranno stati i contenti, quanti i delusi.
Troppo presto per giudicare. E intanto a me viene in mente una cosa che non c’entra niente. Cioè un anno di scuola di tanti anni fa. Una ex-borgata romana. Senza fare nomi. Una lunga strada con niente ai lati, se non una fila di casette abusive. Qualche negozio, in cui a volte ci scappa pure la sparatoria. La parrocchia, con il campetto e il prete che parla romano, e non sembra un prete, ed è meglio così. Una scuola media che affaccia sul niente.
Una prima media di quasi tutti maschi e due femmine. Una cattedra intera solo in quella classe. C’erano mattinate in cui avevo anche quattro ore di fila di lezione con loro. Ragazzini con problemi di tutti i tipi. Familiari sociali comportamentali. Me li ricordo quasi tutti. Un biondino taciturno, dal viso d’angelo, bravo a scrivere. Famiglia povera, il fratello più grande morto di overdose. Un altro irrequieto, giovane promessa del calcio, con il padre che faceva entra esci da Rebibbia. Un sudamericano arrivato suo malgrado in Italia, rabbioso, madre e fratelli, il patrigno che lo picchia. E via dicendo. Ognuno una storia. Una fatica immane, dunque. Il martedì, poi, con quelle quattro ore filate, dalle nove all’una, una tortura da mal di testa. In quei casi ho trovato però tante risorse:
1) C’era una bellissima aula magna con maxischermo e una cineteca abbastanza fornita. Quell’anno abbiamo visto
Il ragazzo selvaggio e
I quattrocento colpi di Truffaut;
Viaggio al centro della Terra; e altri film memorabili.
2) Avevo colleghi eccezionali; una collega bravissima ha inserito i miei ragazzini in un laboratorio teatrale tenuto da lei e da altri collaboratori, un successo.
3) Una bella biblioteca: spazio per scrivere e per pensare, per portare i ragazzi nelle ore di compresenza a ripassare qualche argomento, o semplicemente a leggere.
In aula le prime ore erano bellissime. Entravo in classe con un argomento di riferimento, di storia o di italiano. Una lettura semplice ma significativa, una poesia, un mito, un racconto. Poi il discorso prendeva la sua strada. Si parlava di tutto, attenti ai turni di parola, rispettando le regole dello scambio di idee.
Mi ricordo un ragazzino in particolare. Piccolo di statura, minuto, ripeteva già per la seconda volta. Mi diceva: “Parliamo, professoressa, è bello parlare.” A casa sua, il padre picchiava la moglie. La nostra aula che dava sul niente era il luogo ideale, quasi niente traffico, qualche albero sparuto in lontananza. Un silenzio intorno che favoriva il dialogo. Quante volte gli spunti sono stati le poesie dei grandi autori, le storie di Omero, i racconti degli scrittori contemporanei. In quei casi capivo quanto la letteratura potesse darmi l’aiuto di cui avevo bisogno ogni giorno. Quanto era importante mediare, parlare, aiutare ad esprimersi. Dare a tutti le parole per dirlo. Scrivere un testo insieme. Di voti si parlava poco. Fare cose insieme, quello era importante.
Poi torno a pensare alla classe di quest’anno, quella che ha fatto gli esami. Un contesto sociale diverso, un altro quartiere romano, apparentemente con meno problemi, anche se poi nel dettaglio non è così. Hanno passato tre anni insieme ma ancora ci sono gli esclusi, gli scontenti, quelli che a ricreazione stavano per conto loro per poi lamentarsene. Dissidi, equivoci, caratteri diversi.
Però poi, alla fine, ti stupiscono sempre. Vedi l’impegno agli esami, la volontà di fare bene. Ricorderò tante cose di loro, e loro tante ne dimenticheranno.
Uno su tutti. Uno studente, neanche tanto studioso, che in un tema di un mese fa mi meravigliò comunicandomi proustianamente la sua paura nei confronti della scuola e dell’anno che finiva. L’
athazagorafobia, me lo scrisse proprio così, come se fosse la parola più facile del mondo. La paura di essere dimenticati.
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