Nella biblioteca della mia città organizzano un sacco di cose carucce come rassegne cinematografiche sui desaparecidos argentini o sulla questione palestinese, presentazioni di libri, festival della scienza, della letteratura, del cinema indipendente sardo. Mi è capitato spesso di partecipare anche perché, diciamocelo, le iniziative culturali cittadine non si accavallano certo l’una sull’altra spingendoti a scegliere escludendo qualcosa.
Una volta sono andata alla presentazione di un libro. Non ne ricordo il titolo e neanche l’autore, ricordo solo che arrivata nell’auditorium con le seggiole celesti disposte a semicerchio e divise in due gruppi ho subito notato che non ci sarebbero stati problemi di capienza. Poi ho preso posto proprio davanti al palchetto leggermente rialzato – non troppo avanti che bisogna considerare anche la possibilità di svignarsela se la presentazione si rivela più noiosa del previsto. Ero in anticipo, quindi mi son presa la libertà di scrutare i volti dei presenti e la mia attenzione si è posata su una persona in particolare.
Era una signora sulla settantina seduta qualche fila davanti a me, ma spostata sulla sinistra di tre o quattro seggiole. Aveva le mani posate sul grembo, una figura sottile e il viso composto, indossava una cuffietta presumibilmente di lana dello stesso violetto sgargiante della sciarpina che l’accompagnava. Non riuscii a capire se fosse il colore ad intonarsi alla persona o viceversa, ma era un’immagine perfetta, senza sbavature.
Dopo qualche minuto mi resi conto che era sola e nessuno le rivolgeva la parola o si avvicinava per salutarla e mi sembrò strano perché in una cittadina come la mia ci si conosce tutti, soprattutto gli anziani. Arrivata mia madre le chiesi subito chi fosse la signora con la cuffietta e la sciarpa dello stesso colore e lei mi rispose che era una poetessa, aveva fatto l’insegnate di lettere al Liceo Classico e partecipava spesso a presentazioni e iniziative letterarie.
Poi iniziò la presentazione del libro e passai il tempo a pensare di essere seduta a due passi da una poetessa a cui nessuno aveva rivolto la parola. Forse mi sarei dovuta avvicinare a presentazione finita però per fare cosa? cosa le avrei potuto dire se non avevo letto neanche una delle sue poesie?
Finì che me ne andai senza dirle niente, seguendola con lo sguardo mentre si allontanava nella piazza di granito bianco fuori dalla biblioteca. Appuntai il suo nome nell’agendina e tornai a casa.
A fianco alla biblioteca centrale c’è un edificio bianco con gli infissi celesti, un portone in ferro battuto e due cancelli laterali che si aprono su un giardino spazioso e verde. È la sezione sarda della biblioteca, in cui si possono trovare tutti gli autori locali, edizioni storiche, la macchina per vedere i microfilm come quelle che si vedono nei film polizieschi un po’ datati, in cui si scorrono pagine di giornali risalenti a 20 o 30 anni prima per cercare le immagini di un incidente stradale il cui superstite è diventato un serial killer dopo il trauma della perdita dei genitori…
Nella sezione sarda ci ho trovato cinque libri di poesie, alcuni dei quali con dedica e firma dell’autrice. Li ho letti e mentre lo facevo mi sembrava di avere indosso una sciarpina e una cuffietta che mi proteggevano da uno strano vento, quello che soffia nelle viuzze del centro storico quando esci di casa d’inverno e magari prima eri vicino al caminetto quindi anche una leggera brezza si trasforma in tornado, però per fortuna la sciarpina protegge il collo e la cuffietta la testa e le orecchie, che se si congelano quelle è come se si congelasse il cervello.
E quella città la conosco, ci sono nata e ci ho vissuto pure io, però mica son riuscita a scriverci sopra delle poesie così belle. Allora forse è per questo che qualcuno una volta ha voluto chiamarla l’”Atene sarda”: perché in qualsiasi momento può capitare di andare alla presentazione di un libro nella biblioteca centrale e sederti accanto a una signora un po’ anziana con una cuffietta e la sciarpina abbinata che si chiama Lucia Pinna e scrive poesie come questa:
Altre volte una mattina di gennaio
mi portava verso i campi di grano,
verso i liquidi suoni dell’aprile,
e nelle vene grigio-azzurre fluvia
l’accordo delle stagioni,
la bontà di innumerevoli strade
aperte su spiagge lontane.
Oggi è una mattina di gennaio
che lima i pensieri, e una punta affilata
ha ritagliato i tetti e le montagne.
Cielo, spazio, linee precise
di immagini inesistenti, assurde,
strade dove il respiro si raggela
perché non c’è una svolta che ci chiami.
Ho sete di segni decifrabili,
di gioie deludenti,
di parole mutevoli, umane.