di: S. Peckinpah
con: J. Coburn, K. Kristofferson, R. Jaeckel, B. Dylan, S. Pickens, K. Jurado, J. Robards. J. Elam, R. G. Armstrong.
USA 1973
106 min.
La fragilità o la consistenza di una storia si misura anche - se non soprattutto - dalla frequenza con cui viene raccontata. Tralasciando di proposito il versante letterario che, per così dire, fatalmente, ha concorso all'edificazione di una piccola quanto inossidabile mitologia e restando al mondo delle immagini, la vicenda che pone al centro i destini prima solidali e poi discordi di Pat Garrett e Billy the Kid conta oltre una ventina di lavori per il grande schermo e nessuno sa bene quante riduzioni singole o seriali per la televisione.
Henry McCarty alias Henry Antrim alias William Harrison Bonney alias Billi the Kid (1859 - 1881) e Patrick "Pat" Floyd Garrett (1850 - 1908) incrociano la propria strada con quella di un personaggio altrettanto singolare e spigoloso come Sam Peckinpah agli inizi degli anni Settanta, quando la cosiddetta "New Hollywood" stava muovendo i primi passi e il regista californiano di San Joaquin Valley ne stava già prendendo le misure se non addirittura le distanze: "Non ho idea" - dichiaro' Peckinpah - "in quale rapporto io sia col 'giovane cinema americano' e me ne fotto. Quello che spero e' di fare dei film all'altezza di quelli dei registi che rispetto". Cantore del lato oscuro di un lirismo ancorato a valori considerati desueti - lealtà, coerenza, coraggio, fermezza di fronte alla morte - ma mai incline all'agiografia o a una nostalgia spicciola e consolatoria, quanto profondamente interessato alla condizione dell'animale-uomo in un contesto in rapida, pressoché incontrollabile e con ogni probabilità irreversibile trasformazione, Peckinpah guarda alle figure dei due ex amici, per certi aspetti apparentati - sebbene in uno scambio brutale e alla fine funesto - in un legame padre-figlio, così come in un itinerario prospettico simmetrico ma di segno opposto (Garrett come un Billy invecchiato e compromesso; Billy ancorato ad una irrequietezza senza via di uscita come esorcismo alla "corruzione" di Garrett) fuori da ogni connotazione leggendaria potenzialmente rassicurante (lasciata in parte allo splendore della messinscena e all'aspra magnificenza dei luoghi), a dire, nella loro dimensione umana, con tutto ciò che essa implica in fatto di viltà, testardaggine, slanci senza calcolo, risoluzioni a lungo termine che proprio nel calcolo, nell'opportunismo, trovano la loro ragion d'essere, coronando alla fin fine la complementarità di fondo dei due uomini, di ciò che sembrava allontanarli su direttrici opposte. Il desiderio manifestato più volte da parte di Garrett con l'espressione "Il paese sta invecchiando e io intendo invecchiare con lui", parla, cioè, la stessa lingua, seppur con tono diverso, del Billy cocciutamente aggrappato al suo disegno anarchico tardo adolescenziale mascherato da allergia verso i soprusi dei grandi proprietari terrieri spalleggiati dalla Legge (simboli, questi, dell'Autorita', del Denaro e della frenesia conquistatrice dell'incipiente Progresso). Le due istanze, in altre parole, calate nella carne di un mondo che dell'epopea western conserva poco o niente - povero, sporco, quasi senza parole e infido qual e' - e che a grandi passi (a dire, con un suo inquietante ottimismo non esauribile nell'interesse materiale dei soliti pochi ma ascrivibile, forse, a viluppi interiori ancora in buona parte oscuri e che soprattutto riguardano ognuno di noi), si sta consegnando alla Modernità, appaiono come riflessi condizionati sovrapponibili quanto fondamentalmente inefficaci, nei confronti dei quali, quella carne, quel mondo, sebbene colti entrambi ancora sul crinale di una mutazione decisiva, già promettono di metabolizzare tanto le smanie senili d'integrazione dell'uno quanto le convulsioni ribellistiche dell'altro entro la medesima indifferente irrilevanza. Le trame politiche in seno a Sparta, invece, i momenti di rifiato tra un'offensiva e l'altra, il paesaggismo ipercromatico sospeso tra idealizzazione di un tempo arcaico, brutale ma puro e un cupo incombere di destini ineluttabili, ma così pure la gran parte degli stessi dialoghi, operano come meri riempitivi - accidenti, difetti di programmazione, verrebbe da dire - per cui la tecnica digitale la fa veramente da padrona e acuisce il timore che il modello classico di "narrazione avventurosa" sia sul serio morto e sepolto o, quanto meno, sotto tenda ad ossigeno... Si e' parlato a proposito di "300" di "colonizzazione dell'immaginario". Ebbene, se colonizzazione esiste, essa appartiene alla Modernità nel suo complesso. Ha iniziato la sua marcia diversi decenni fa e ha trovato nel Cinema un alleato potente, magari, ma tutto sommato accessorio. La fabbrica dell'intrattenimento non e' che una delle tante facce di un mondo che ha scelto (?) di affidarsi alla tecnologia, con tutto ciò che di promettente e di oscuro questo comporta.
Quando Garrett (un James Coburn subdolo e spiccio nella sua latente "rigidità" di inflessibile uomo di legge minato dal tarlo di dover sostanziare con una patente di "legalità" il tradimento dell'Amicizia), dice a Billy (un Kris Kristofferson guascone e provocatore così come indifferente se non persino ignaro delle conseguenze innescate dai suoi comportamenti): "Le cose sono cambiate", per sentirsi rispondere: "Le cose sono cambiate. Io no", ci troviamo di fronte alla certificazione di una sconfitta che va molto al di la' delle traiettorie personali dei protagonisti ma abbraccia - ecco uno dei rovelli di Peckinpah - un modo stesso di stare al mondo, nel senso che affermazioni del genere, con tutto il loro portato psicologico, emotivo e "culturale", nell'orizzonte prossimo venturo, ad esempio di una ricchezza talmente opulenta da essere insensata a cui si giustappone una miseria ridotta ad atroce agonia, non possono essere più formulate, se non come detonatori di azioni via via sempre più irrimediabili (il sopruso, il fatalismo, la delazione, l'intenzionale ricerca del pericolo, la trappola) o come materiale da consegnare alla rilettura postuma di un ipotetico aedo sagace (nel caso, il Bob Dylan/Alias discreto ma attento osservatore del dipanarsi/precipitare degli eventi). Lo stesso: nell'istante in cui Katy Jurado accompagna con lo sguardo in lacrime Slim Pickens colpito a morte sullo sfondo di un imperturbabile tramonto bluastro, da un lato muore il western come lo abbiamo sempre conosciuto - o magari sognato o anche odiato, irriso -; dall'altro resta - ma per quanto ancora ? - la forza di una miscellanea di forme e colori irriducibili, di spazi senza tempo, di silenzi risolti nel loro millenario e misterioso succedersi, prima che anche tutto questo venga violato dall'ultima e forse definitiva "modernizzazione".
Per tale motivo nel film non c'è quella inerzia febbrile, quella frammentazione particolare che imprimeva un ritmo inesorabile ad opere come "Il mucchio selvaggio" (1969), con le sue celeberrime tremilaseicento e passa inquadrature. Qui, ora, e' possibile altresì "rallentare", guardarsi meglio intorno (i dettagli secondo la fantasmagoria cromatica giocata da John Coquillon in specie sull'ocra, sugli scuri "pieni", sui riflessi bronzei), come per comprendere una volta per tutte - anche secondo i parametri della scala dei colori, quindi in ragione degli sfondi, le penombre, i riflessi, i riverberi, i giochi più o meno falsi - ciò che si sta perdendo o si sta contribuendo a distruggere. Ora e' tempo di asciugare l'elegia accordandola alle scansioni meste della ballata ("Knockin on heaven's door"); riconoscere la sconfitta (Billy finge di credere che Garrett lo stia raggiungendo per un bicchiere assieme), trattenere il respiro e predisporsi alla morte. Morte che sancisce l'esecuzione di un "contratto" ma non risolve nulla (Garrett appena freddato Billy disarmato - disgustato e sconvolto - impedisce allo sgherro di Chisum - il boss dei proprietari terrieri - di scempiarne il corpo). Morte che ti lascia vivo e t'imbeve di rimorso, appiccicoso e contundente, come i sassi che un ragazzino ti lancia contro mentre ti allontani a cavallo verso una frontiera (personale, materiale/spirituale) che non esiste più.
TFK
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