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Cultura del lavoro 3.0

Creato il 19 novembre 2011 da Davide

Nel numero di novembre di Wired c’è una guida al fai da te 3.0. Contributo di straordinario interesse perchè mostra uno spaccato di realtà emergente che prende forma da un mix di sapere, saper fare, artigianato manuale, creatività cognitiva e orizzonte planetario. Chiamalo poco, in tempi di crisi globale e di pessimismo cosmico.

Scrive Wired:

Nell’era della democratizzazione dell’industria, ogni garage può diventare una fabbrica in miniatura, e ogni comune cittadino un potenziale micro-impreditore. E’ il nuovo do-it-yourself dei maker, che rimodellano l’economia dal basso in tempi di crisi. Perchè facendo cose si combatte l’ansia. E perchè, quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare.

L’articolo è in buona sostanza un manifesto dell’artigiano 3.0. L’artigiano del futuro. Sono alcuni anni che il lavoro artigiano solca il panorama socioantropologico. Con Sennett è mondo di pratiche paradigmatico (anche se forse un pò idealizzato) per la necessità di unire attenzione ai dettagli, capacità di coordinamento tra le idee e la realtà concreta, e soprattutto passione per la qualità dei risultati del proprio lavoro, realizzabile solo attraverso una cura di tutte le fasi del processo senza delega alla dis-attenzione delle macchine. Essere artigiani è fare bene il proprio lavoro. Con Micelli è un tratto fondante, direi antropologico, della cultura del lavoro italiano che si sviluppa grazie ad un sistema di valori e di saper fare, vera garanzia per una innovazione di qualità sostenuta nel tempo.

Ci sono cinque elementi fondamentali: l’uomo (l’artigiano, il maker), il luogo (l’officina, la bottega, il garage), gli strumenti (il cervello, le mani, le macchine, il software), lo scopo (l’oggetto da produrre, la lavorazione da eseguire, il servizio da fornire) e il committente (il destinatario dello scopo). Et voilà, un mondo artigiano è creato.

Wired indaga la struttura e le potenzialità odierne di questi mondi artigiani che prendono forma grazie ad un uomo diverso, a strumenti diversi e a committenti diversi. Luoghi e scopi rimangono gli stessi, con piccoli adattamenti.

Chi sono i maker?

I maker sono personaggi interessanti: non sono nerd, anzi sono dei tipi piuttosto fighi che si interessano di tecnologia, design, arte, sostenibilità, modelli di business alternativi. Vivono di comunità on line, software e hardware open source ma anche del sogno di inventare qualcosa da produrre autonomamente, per vivere della proprie invenzioni. In un momento di crisi si inventano un lavoro invece di cercarne uno classico.

Lavorano nei garage 2.0, cioè i soliti garage dove gli uomini da sempre danno forma alle loro idee attraverso le mani, potenziati da tecnologie hard e soft. Questi makers utilizzano dei pc, delle macchine utensili a controllo numerico (CNC), dei software di progettazione assistita (CAD-CAM) e delle stampanti 3D, che possono creare oggetti fisici aggiungento materiale gradualmente. La fresa procede per la via del togliere (come la scultura), la stampante 3D procede per la via del mettere (come la pittura). Strumenti tecno-artistici per dare forma alle proprie idee. Uniscono poi tutto ciò che serve per i loro scopo, spesso reperibile sul web partecipando alle comunity di appassionati e condividendo esperienze, informazioni e conoscenze.

Una volta ottenuti i loro prodotti li mostrano sul web, raccolgono pareri e critiche, si uniscono in gruppi per coordinare le capacità produttive e ottimizzare la distribuzione, sostenuti dai social network che rimbalzano foto, video e descrizioni dei loro prodotti.  Dal garage al globale e ritorno, il gioco è fatto.

Dal punto di vista antropologico, quale tipo di cultura è necessaria, e auspicabile, per sostenere e far sviluppare questo tipo di approccio al modo di lavorare, di fare le cose? Ciò che personalmente apprezzo è che i makers hanno una visione integrata della cultura, ad esempio sono buoni programmatori che sanno anche usare le mani, e un banco pieno di chiavi, cacciaviti, tester, schede e diavolerie varie li entusiasma, non li spaventa.  Uniscono una grande capacità di maneggiare sia software che hardware, e non sono specialisti solo di uno o dell’altro. Passano da un libro ad una pinza senza traumi, e la loro nevrosi non li spinge a cercare un ruolo sociale predefinito dove poter far mostra du purezza. Fanno della contaminazione la loro bandiera. Saltano da un pensare riflessivo ad uno tecnico senza entrare in conflitto con loro stessi. Ancora, sono aperti allo scambio di idee e informazioni nelle comunità web, dove non hai mai visto l’interlocutore, ma tratti ognuno con la disponibilità che concedi all’amico di sempre. Non hanno paura che qualcuno gli “rubi l’idea”, perchè loro incarnano la loro idea, la realizzano ogni giorno nel loro modo di essere. E ciò non è rubabile. La produzione di idee è un movimento continuo e inarrestabile, è un modo di essere.

Credo che l’imparare a lavorare sia con la testa che con le mani costituirà un vero vantaggio antropologico per il mondo del lavoro che si sta creando. La cultura dei makers, e i contesti che la favoriscono e la fanno replicare, andrebbero studiati con grande attentione dagli antropologi.

 


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