Dorotea Giglio è una ragazza che si uccide. La sua morte si espande e fa finire il mondo. O meglio, fa finire un mondo, per Dorotea che, letteralmente, nasce alla morte nel tentativo, vano, di sfuggire alla vita.
Cuore cavo (e/o, 2013) parla di una «vice-vita», dunque, o di una vice-morte. E di tutto quello che ci sta in mezzo. Viola Di Grado mette a fuoco la protagonista come una giovane fortunata nella sua tremenda predestinazione, cresciuta nel nero e al nero assuntasi, colpita come un pugno dalla mirabile grazia di farsi morire presto.
La devastazione è fuori e dentro già dai primi anni di vita: l’ambiente circostante declina e decade, i farmaci diventano tappe che scandiscono il tempo e le giornate si allungano a compenetrare il sonno e riconfigurare la veglia. Tra gente con «sorrisi aperti come sessi» e un «perfetto sistema idraulico del trauma» in cui Dorotea (non) agisce, una morte, la morte, dovrebbe bastare, e invece, purtroppo, non è così. «Sono nata di parto naturale in una vasca da bagno e sono morta di morte innaturale nello stesso posto», ci dice questa inedita survivor dell’esistenza, questo instancabile “essere umano”, in direzione ostinata e contraria, è proprio il caso di dirlo.
La morte diventa perciò, fosse anche solamente per questo, una (proficua?) occasione di riflessione, per tirare le somme. Del resto, quando si scopre che non esiste «muro, linea divisoria, bordo, fine», è un po’ come scoprire che la Terra non è un cubo o un parallelepipedo. La decomposizione è solo la conseguenza più logica. Dorotea si vede sfiorire, anzi rifiorire di necrosi, si osserva mangiata progressivamente, consumata, più che nuda, esposta, disarticolata, portata a inutile carcassa.
Cuore cavo è un romanzo che mette sul tavolo tanto, senza metterci nulla, e per questo è straordinario. Vive, o se volete “sottovive”, come dice la protagonista di se stessa, grazie a improvvisi strappi, squarci di luce corrotta. Le frasi e i periodi, altalenanti in modulazione di intensità, si accatastano, come i dettagli, le azioni postume sono presenti e vive, e quelle eseguite in vita fanno parte della morte, ormai.
In questa commedia nera, o tragedia luminosissima, ci si muove nel dominio di un’estetica, e anche di un’etica, che assorbono tanto da Buried quanto da Paranormal Activity, così da Houellebecq come da Murakami. Si potrebbe pensare di essere in uno stencil di Banksy, o in un quadro di Ryan Heshka. Viola Di Grado ha la capacità istintiva, quasi animale, e poco comune tra i giovani autori italiani, dobbiamo dirlo in tutta sincerità, di creare contro-mondi, di far esperire incontri e scontri, avvicinamenti e iati, con tenerezza e ferocia allo stesso tempo.
All’interno di Cuore cavo ci sono, dunque, la contaminazione pop ripulita dal ridicolo, i sentimenti nettati dal patetismo che sembra farla da padrone altrove, il gusto di raccontare una storia, di inquietare e spaventare, commuovere e invitare al pensiero critico. In buona sostanza, anche se non succedesse nulla per tutto il romanzo, Dorotea Giglio meriterebbe le nostre lacrime e i nostri sorrisi, e ugualmente saremmo condotti a pensare a quanto di inneffabile c’è nel dire e scrivere del non poter dire e leggere. Per questo motivo, se Dorotea è confinata nella sua “vita nova” che è la “nostra” morte, chi vive ancora della vita vecchia, è prigioniero del fatto, apparentemente inoppugnabile, di essere?
Cuore cavo è un romanzo della miglior specie. Un romanzo vero, si potrebbe tranquillamente dire, riandando all’etimologia. Se non un capolavoro, qualcosa che ci va molto vicino.
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