Il mio vicino di casa è robusto.
È un ippocastano di Corso Re Umberto;
ha la mia età ma non la dimostra.
Alberga passeri e merli, e non ha vergogna,
in aprile, di spingere gemme e foglie,
fiori fragili a maggio;
a settembre ricci dalle spine innocue
con dentro lucide castagne tanniche.
È un impostore, ma ingenuo: vuole farsi credere
emulo del suo bravo fratello di montagna
signore di frutti dolci e di funghi preziosi.
Non vive bene.
Gli calpestano le radici
i tram numero otto e diciannove
ogni cinque minuti; ne rimane intronato
e cresce storto, come se volesse andarsene.
Anno per anno, succhia lenti veleni
dal sottosuolo saturo di metano,
è abbeverato d’orina di cani.
Le rughe del suo sughero sono intasate
dalla polvere settica dei viali;
sotto la scorza pendono crisalidi
morte, che non diventeranno mai farfalle.
Eppure, nel suo torpido cuore di legno
sente e gode il tornare delle stagioni.
Primo Levi
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